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Il Saldatore della patria e il discorso di Milano

Considerazioni sparse su verticalità e unità sindacale

19 Novembre 2018
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La candidatura di Landini a segretario generale della CGIL, dopo la sua annunciazione nel teatrale direttivo del 27 ottobre (interrotto a metà tra urla, abbandoni e comunicati stampa), si è imposta politicamente al congresso di Milano. Nella Camera del lavoro più grande del paese, con una solida tradizione ultramoderata, Landini ha rotto mesi di silenzio, ha accettato pubblicamente la candidatura e l’ha resa un fatto compiuto. Anche per gli applausi di quella particolare platea.

Quel discorso non si è limitato a questa legittimazione politica. Nel suo piccolo, ha tracciato il profilo di un impegno programmatico. Il Candidato Designato dalla Camusso e dalla maggioranza della Segreteria ha infatti impresso al testo congressuale largamente maggioritario (“Il lavoro è”) una particolare inclinazione e declinazione. Nel suo discorso, cioè, ha sottolineato alcuni aspetti e ne ha taciuti altri. Ad esempio, non ci pare abbia particolarmente ripreso i suoi contenuti più radicali, dalla proposta di una campagna sulla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario ("La riduzione generalizzata degli orari e del tempo di lavoro, a parità di salario, finalizzando la redistribuzione dell’orario a favore dell’occupazione e della qualità del lavoro, la conciliazione dei tempi di vita, devono diventare assi strategici dell’azione rivendicativa della Cgil") alla necessità di reali aumenti salariali ("...rivendicare attraverso una vertenza generale una nuova politica salariale, contrastando con forza il crescente differenziale retributivo e professionale delle donne, quale leva di crescita della domanda interna, che redistribuisca la ricchezza prodotta, valorizzi le competenze professionali e affermi il principio “eguale lavoro, eguale valore”. L’incremento del valore reale dei salari deve essere conseguito sia attraverso la contrattazione collettiva, che attraverso la leva fiscale e politiche che non fondino i loro presupposti su bonus, elargizioni occasionali o la diffusione di forme private di welfare").

Invece, due assi diversi ci sembra abbiano caratterizzato il suo discorso.

Da una parte, Landini ha sottolineato a lungo il problema dell’unità e della ricomposizione del lavoro, articolandola non solo sul terreno dell’integrazione rivendicativa e contrattuale delle sue diverse forme, ma anche se non soprattutto sulla necessità di superare “la verticalità” della CGIL. “Sindacalismo verticale” e “sindacalismo orizzontale” sono termini propri dal mondo CGIL, che al resto dell’universo possono risultare astrusi. Si riferiscono alle particolarità di un sindacato generale che è costruito su due dimensioni organizzative: le categorie (che organizzano lavoratori e lavoratrici di un particolare settore e che sono relativamente autonome finanziariamente, organizzativamente e politicamente) e la confederazione (che nei diversi livelli riunisce in strutture territoriali l’insieme delle diverse categorie e dei servizi). Il sindacalismo “verticale”, allora, è quello delle particolarità e delle autonomie dei diversi settori, delle diverse professioni, delle diverse tradizioni e identità di classe; il sindacalismo “orizzontale” è quello della confederalità e degli interessi generali del lavoro. Il Candidato Designato, nel suo discorso, ha sottolineato in particolare l’esigenza di ricomporre il lavoro disgregato, anche dando rilevanza a prassi e strutture organizzative confederali, superando particolarità e resistenze verticali. Ha quindi richiamato la centralità e l’importanza delle Camere del lavoro. Suggestioni e ragionamenti che hanno rievocato, e di molto, discorsi e proposte della Camusso alla conferenza di organizzazione di due anni fa.

Dall’altra parte, Landini ha esplicitamente posto il problema del superamento della storica divisione tra le diverse organizzazioni sindacali, sottolineando l’attualità e l’opportunità della ripresa di un percorso di unità organica tra CGIL, CISL e UIL. Non è stato né un passaggio scontato, né un passaggio politicamente neutro. Nel percorso di costruzione del documento congressuale, infatti, il rapporto con CISL e UIL è stato un passaggio delicato, contrastato anche nella maggioranza della CGIL. Certo, noi [area di opposizione Il sindacato è un'altra cosa] lo abbiamo ripreso criticamente nel documento alternativo ("La Cgil deve smettere di inseguire l’accordo con imprese e governo, deve mettere in discussione l’unita con i vertici di CISL e UIL, sempre più complici delle politiche di austerità. L’unita dei lavoratori e delle lavoratrici, senza distinzioni di etnia, genere, età, contratto o mansione, e sempre un valore. Più che mai oggi che il lavoro e disperso e diviso. L’unita tra CGIL, CISL, UIL è però spesso un freno alle rivendicazioni, alle lotte e anche alla democrazia"). Non siamo però gli unici ad averne discusso. Sin dalla prima traccia, ne hanno parlato con toni e accenti diversi molte assemblee generali territoriali e di categoria. In particolare, settori e aree moderate della CGIL, poi legati al sostegno della candidatura di Vincenzo Colla nell’immaginario mediatico, hanno sottolineato proprio la necessità e l’urgenza di riaprire un percorso unitario con CISL e UIL, non solo nell’azione ma anche nel superamento delle storiche divisioni organizzative. Una dialettica che è stata esplicitamente ripresa anche in Commissione politica. E che si era conclusa con una mediazione che più che chiarire le cose, forse le occultava: il testo congressuale proposto, infatti, parlando di “nuovo progetto” e “nuova proposta” di unità sindacale, lasciava sullo sfondo dell’ambiguità la discussione tra nuova unità organica e un più semplice rinnovo dell’unità d’azione a partire dalla condivisione delle regole sulla rappresentanza (il passaggio finale è: “Nella fase di crisi profonda della rappresentanza e per il mutamento di contesto politico in Italia e in Europa, il mondo del lavoro può rispondere con un nuovo progetto di unità delle lavoratrici e dei lavoratori e del sindacalismo confederale, per rappresentare il lavoro quale valore fondante della democrazia e dello sviluppo. La CGIL è impegnata a produrre una nuova proposta di unità sindacale fondata sulla confederalità come valore e condizione per la necessaria riunificazione del mondo del lavoro e di unità e di coesione democratica a partire dai luoghi di lavoro”).

Per chi lo ha ascoltato, allora, il discorso di Milano è stato un po’ sorprendente. La discesa in campo del Candidato Designato è sembrata cioè definirsi intorno ad un baricentro programmatico diverso, anche molto diverso, dalle aspettative di molti (superamento della verticalità, come spesso ripetuto dalla Camusso, e superamento delle divisioni con CISL e UIL, come spesso ripetuto dalle aree moderate della CGIL).

Del resto, in tutto il suo percorso sindacale, Landini ci ha abituato ai suoi bordeggiamenti corsari, alle rapide svolte ed ai veloci insinuamenti. Sino a perdere ogni bussola e direzione: dall’opposizione radicale al modello Marchionne alla mossa del cavallo di Grugliasco (con la conseguente rinuncia, e anzi isolamento dell’opposizione nelle fabbriche), dal dialogo con Renzi neosegretario del PD alla costruzione della “coalizione sociale”, dagli accordi separati alla firma del peggior Ccnl della storia metalmeccanica (e forse non solo). Come ci ha abituati ai suoi cambi di prospettiva. Dalla rigorosa difesa dei diritti delle minoranze in CGIL (quando era minoranza come CGIL che vogliamo e come FIOM, congressi del 2010 e del 2014), alla forzatura delle regole e alla repressione autoritaria dei dissensi quando era maggioranza (espulsione dalla segreteria nazionale FIOM di un suo componente, Sergio Bellavita, contro le prassi statutarie, come poi riconobbe la relativa Commissione; trasferimento forzato di funzionari a 700 chilometri di distanza, con Eliana Como; ritiro improvviso dei distacchi, come con Breda prima e Bellavita poi). Dalla difesa rigorosa delle particolarità e delle autonomie delle categorie (quando era segretario della FIOM, nella tradizione di Sabattini e Rinaldini), alla difesa oggi della necessità e opportunità di superarne la verticalità, da (candidato a) segretario della CGIL. Un bordeggiamento corsaro che, al di là del profilo mediatico, sembra oggi la principale cifra sindacale del Candidato Designato.

In questo percorso corsaro, poi, un articolo del Diario del Lavoro è recentemente tornato, nero su bianco, sulla proposta di unità organica con CISL e UIL. Nero su bianco, le sue parole fanno ancora più effetto: "Realizzare l’unità fra CGIL, CISL e UIL, andando oltre la semplice unità d’azione per arrivare a una vera e propria unità organica. È la sfida che lancia Maurizio Landini [...] Dice [...] ”Siamo in una fase di passaggio, c’è un cambiamento del quadro politico nel quale sono scomparsi i partiti tradizionali. Questo pone il problema, alle organizzazioni sindacali, di avere una propria autonomia”. Nel 1947, ricorda Landini, al tempo di Di Vittorio, la CGIL era ancora una sola: “Poi ci sono state le divisioni per ragioni politiche, da cui sono nate CISL e UIL. E se non siamo mai arrivati in passato all’unità organica, portando in alcuni casi anche allo scioglimento delle organizzazioni esistenti per fare un unico sindacato, come sappiamo accadde nel caso della FLM, è perché ci sono state le resistenze delle forze politiche, che non vedevano bene un sindacato così autonomo, forte e indipendente. È evidente che oggi c’è un cambiamento: di quei partiti non ne è rimasto nemmeno uno. Quindi sono venute meno le ragioni politiche, o partitiche, che ci impedivano l’unità sindacale. E non vedo ragioni per non rilanciare un progetto che vada oltre la semplice unità d’azione”.

Ora, nero su bianco, ci ha un po’ stupiti la leggerezza e la superficialità di queste considerazioni. La divisione sindacale sembra infatti qui circoscritta ad una particolare responsabilità della “politica”, e soprattutto dei famigerati “partiti”. Nel senso comune odierno, credo che non esista niente di più orrendo che queste creature oramai sostanzialmente mitologiche (essendo oramai da tempo praticamente scomparse nei luoghi di lavoro e di vita delle classi subalterne). Sottolineo la leggerezza e la superficialità di queste affermazioni, perché oltre a lisciare il pelo a questo senso comune, non ne capisco il senso storico e fattuale.

La scomparsa dei partiti tradizionali e dei riferimenti politici di CGIL, CISL e UIL appartiene da tempo alla storia. La CGIL nasce (rinasce), dopo la lunga parentesi fascista, per un accordo politico siglato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e Emilio Canevari per la componente socialista. Il PCI si è sciolto nel 1991, il PSI e la DC nel 1994. Sono passati venticinque anni. Non solo. Diversi soggetti politici eredi di questi partiti ne hanno formato uno unico nel 2007: il PD, che vide tra i suoi fondatori, dirigenti e parlamentari, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani, Ottaviano Del Turco e Franco Marini, Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza. Cioè non solo le ragioni politiche delle divisioni sindacali appartengono oramai da tempo alla storia di questo paese, ma molti dei principali dirigenti di CGIL, CISL e UIL, mi viene da dire persino alcuni suoi esponenti storici, hanno fondato insieme un partito più di dieci anni fa (che infatti ha avuto nella sua parabola politica referenti sindacali molteplici, in tutte e tre le confederazioni sindacali).

Forse le argomentazioni di questo rilancio dell’unità sindacale andrebbero ricercate in altri parti del discorso. Nello stesso articolo, infatti, si sottolinea come la politica oggi “punta sulla rappresentanza diretta, senza mediazione. Un elemento di semplificazione della democrazia che rischia di portare verso un maggiore autoritarismo. È un disegno preciso di messa in discussione delle forze sociali, lanciando il messaggio che, tanto, non contiamo nulla, sottolinea Landini. Per questo, conclude, “occorre una nuova e forte proposta sindacale, ma anche politica e sociale: noi dobbiamo diventare il soggetto che avanza questa proposta"’’. Allora il problema è un altro. Non è il passato, è il futuro. È la messa in discussione da parte della politica di oggi (PD, Lega e 5 Stelle) del dialogo sociale e dei cosiddetti corpi intermedi. Davanti all’esaurimento della concertazione, davanti alla delegittimazione e al rischio di cancellazione dei tavoli (o il loro annegamento in una miriade di soggetti e soggettività, più o meno significative, più o meno reali), è il tentativo di esser più grandi, visibili, imprescindibili. Non è la rimozione di un ostacolo passato, è il tentativo di imporsi per dimensioni e forza organizzativa (10 milioni di iscritti?), su una parte sociale distratta e recalcitrante. Non è un’unità sospinta dalla storia e dal venir meno dei suoi ostacoli (i partiti, questi cattivi soggetti).

È invece un’unità astratta, burocratica, che sussume lavoratori e lavoratrici nel quadro di una dialettica tra le diverse organizzazioni. Un’unità come quella degli accordi del 10 gennaio (che nella sua vita corsara Landini ha prima contestato, facendone il tema di divisione dello scorso congresso CGIL, e poi sostenuto per legittimare la sua scalata ai vertici CGIL). Un’unità, cioè, fondata su una democrazia proprietà delle organizzazioni sindacali (pensiamo ai limiti di presentazione delle liste o a quelli relativi alla decadenza dei delegati), che incorpora persino la visione di un sindacato disciplinante la forza lavoro (pensiamo al tema delle esigibilità e quindi delle sanzioni). Questa unità, astratta e burocratica, in realtà non funziona. Come non funziona l’accordo del 10 gennaio, che a quattro anni di distanza non è mai stato realmente implementato proprio nei suoi nodi cruciali (dalla misura della rappresentanza al voto degli accordi, sino alle sanzioni a organizzazioni sindacali, delegati e lavoratori/lavoratrici).

Questa unità astratta e burocratica non funziona, perché non fa i conti con le ragioni che hanno impedito l’avvio di processi unitari, nel momento in cui le ragioni politiche di queste divisioni sono venute meno (all’inizio degli anni Novanta, con la dissoluzione dei partiti tradizionali; nella seconda metà dei Duemila, con la formazione di un partito che raggruppava in un unico soggetto la sua possibile rappresentanza politica).

Perché CGIL, CISL e UIL, nonostante la lunga prassi comune e la condivisione storica di un’unità d’azione (nelle categorie, con rare eccezioni, e a livello confederale, con temporanee interruzioni), mantengono concezioni diverse del sindacato. Non è solo il problema di FCA e del modello Marchionne (dove queste diverse concezioni si sono recentemente contrapposte di più), che pure Landini dovrebbe conoscere bene.

È che da una parte si interpreta il sindacato non solo come sindacato di iscritti (storica diversità tra CGIL e CISL), ma come rappresentante della forza lavoro: un’organizzazione che accompagna le trasformazioni della produzione e la competizione in quanto rappresenta interessi e diritti di un fattore della produzione. Soggetti (individuali e collettivi) che partecipano alla creazione della ricchezza e che quindi hanno diritto ad averne i frutti. Un sindacato cioè che si fa pienamente carico non solo della redistribuzione, ma anche della produzione del valore. È, nella sua forma più cristallina, il sindacato di Bentivogli, ma anche di tanta CISL e UIL, in molte categorie e territori (come anche talvolta, per convinzione o passività, di alcuni settori CGIL).

È che dall’altra parte si interpreta il sindacato come organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici: non solo un sindacato di tutti, ma soprattutto un’organizzazione che rappresenta uomini e donne. Persone in carne, ossa e sangue che sono assoggettate ad un rapporto sociale, subordinati nei processi di lavoro, e che quindi devono esser difesi in primo luogo nella loro autonomia. Un sindacato, cioè, che si fa pienamente carico non solo della redistribuzione, ma anche della difesa dell’indipendenza del lavoro dal capitale, anzi della contrapposizione fra questi interessi. Una concezione che tempo fa viveva anche nella CISL, e che oggi attraversa la matrice storica della CGIL e purtroppo solo parte della sua prassi sindacale. Ma che è ancora, credo, una sua ragione fondante.

Allora, in conclusione, delle due l’una.

O il discorso del Candidato Designato è solo un passaggio della sua scalata congressuale, una mossa politica per mostrare attenzione e considerazione rispetto ad istanze e ragionamenti di chi oggi dissente e subisce la sua candidatura. Una battuta mediatica ed un titolo di giornale, un atto di considerazione e di retorica, per poi dimenticarsene e passare oltre. In questo caso, è semplicemente un momento della dialettica interna della CGIL e delle sue ricomposizioni burocratiche. Un atto comunque non neutro e non neutrale, che peserà su questi equilibri e quindi sulla definizione della linea e degli assetti futuri della CGIL.

O il discorso del Candidato Designato è un vero impegno programmatico, l’intenzione di proporre e sviluppare non solo una prassi, ma anche un processo di superamento delle divisioni con CISL e UIL. Magari a partire dall’implementazione reale di quel accordo del 10 gennaio sinora ribadito politicamente, ma mai applicato completamente e conseguentemente. Questo percorso, come ho detto, metterebbe in gioco alcuni elementi centrali e costitutivi dell’identità della CGIL: al di là delle diverse inclinazioni e declinazioni della sua linea (riformiste e concertative, piuttosto che conflittuali e radicali), metterebbe in discussione la radice della sua reale autonomia, quella di classe.

Per ora il discorso si tiene con leggerezza e sulla superficie, cercando con fare corsaro di muoversi tra le onde ed evitare così i pericoli di pensieri troppo profondi.

Noi abbiamo un’altra idea di sindacato. Un sindacato di classe, indipendente, democratico e che lotta, come riporta il sottotitolo del nostro documento. In ogni caso, al di là dei nomi e dell’allure di sinistra del Saldatore della patria, sarebbe proprio ora che nelle pieghe del congresso si iniziasse a parlare di merito, di strategie, di programmi e di modelli sindacali. Non solo in un articolo sul Diario del lavoro, nella conclusione di un congresso territoriale, in un fondo su qualche blog più o meno affiliato all’organizzazione. Sarebbe stato il caso di parlarne sin dalle assemblee congressuali. Sarebbe proprio il caso che se ne parli nel suo luogo naturale, il congresso della CGIL: a partire dai suoi documenti e le sue risoluzioni, votate democraticamente da lavoratori, lavoratrici, pensionati e pensionate, e dai loro delegati e delegate.

Luca Scacchi

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