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Caso Cucchi. Il cuore profondo dello Stato

12 Ottobre 2018
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La catena di complicità e coperture dell'Arma dei Carabinieri attorno agli assassini di Stefano Cucchi si è rotta perché un carabiniere coinvolto ha parlato. Ma ora proprio la dinamica dell'accaduto chiama in causa il cuore profondo dello Stato: le gerarchie di comando di quei “corpi d'uomini in armi” (Engels) ai quali la democrazia borghese affida la tutela dell'ordine pubblico.

Le gerarchie hanno coperto il crimine per nove anni. Per nove anni hanno non solo depistato le indagini, falsificato i reperti, comandato il silenzio ai sottoposti, trasferito per punizione chi aveva parlato (Casamassima), minacciato ogni altro possibile sgarro. Ma hanno promosso la criminalizzazione di Ilaria Cucchi e della famiglia del giovane assassinato. Quando Ilaria osò pubblicare l'immagine facebook di uno dei carabinieri coinvolti con tanto di esibizione di muscoli e pose marziali («ecco la foto dell'uomo che ha ammazzato mio fratello») si scatenò contro di lei l'inferno. Ben tre sindacati di polizia la querelarono per diffamazione e istigazione all'odio. Una canea reazionaria la lapidò sui social come intrigante interessata a far soldi sulla pelle del fratello. Gianni Tonelli, principale dirigente del sindacato più a destra della Polizia (oggi guarda caso parlamentare leghista) disse che Stefano aveva pagato semplicemente le conseguenze di una vita dissoluta e che era “infame” accusare i Carabinieri. A tutto questo si aggiungevano i commenti politici. Matteo Salvini, oggi Ministro dell'Interno, disse pubblicamente di Ilaria «Mi fa schifo» (testuale). Per non parlare dei La Russa e dei Giovanardi, arruolati ad onorem per sempre nell'Arma.

Nulla di nuovo. È quanto è accaduto e accade a difesa dell'Arma o della Polizia in altri casi di morti “accidentali”. Quelle di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, per citare solo le più note. Non si tratta di semplici episodi, si tratta della punta emergente di un iceberg profondo: quello spazio di illegalità che diventa legge in tante carceri e stazioni di polizia; quell'esercizio brutale della forza che si accanisce contro chi è indifeso, tanto più se “marginale” e “reietto”; quella cultura dell'onnipotenza che si nutre di letteratura fascista, la più popolare e non da oggi nelle caserme. Per avere la misura intuitiva della profondità dell'iceberg è sufficiente un esercizio di immaginazione. Se l'omertà ha protetto per nove anni l'assassinio di Stefano, nonostante l'attenzione dell'opinione pubblica, il coraggio di Ilaria, la tenacia della sua famiglia, quanti saranno i casi di omertà in tante vicende analoghe prive di attenzione mediatica e relative a persone assai più indifese?

La cultura dell'onnipotenza dell'Arma fa leva sulla tradizione dell'impunità. Stando ai giornali, il maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini ha usato nella vicenda Cucchi un argomento centrale per chiedere il silenzio: “State tranquilli. Ho conoscenze all'interno dell'Arma e in Vaticano”; era la garanzia offerta della protezione in cambio della sottomissione all'ordine gerarchico. Del resto, su grande scala, la nota vicenda della promozione sul campo dei primi responsabili della macelleria messicana di Genova contro le manifestazioni anti G8 è stata emblematica e ha fatto scuola. Naturalmente, come dimostra il caso di Stefano, può capitare un “incidente” e la catena delle connivenze può rompersi, ma nessuna eccezione può oscurare la regola, la costituzione materiale dello Stato borghese profondo, insensibile per sua natura a qualsiasi costituzione formale.

Proprio la natura organica dei corpi repressivi, il loro codice interno, la legge reale che governa le loro relazioni, li rende strumenti idonei alla difesa dell'ordine borghese della società. Per questo nessun programma anticapitalista può rimuovere dal proprio orizzonte la questione dello Stato e della rivoluzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

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