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La manovra del popolo e la reazione dei mercati

4 Ottobre 2018
moscovici


Dopo la sconfitta di Tria al braccio di ferro con la così chiamata «Manovra del Popolo», tutte le testate e i medium di massa agitano in sincrono lo spauracchio della ritirata dei mercati.
Persino presunti…“progressisti” come Stafano Fassina (Liberi e Uguali/in rampa di lancio per Patria e Costituzione) commentano il fatto come la dimostrazione della validità di questo «coraggioso» esecutivo.
Anche presso le masse, tra i margini che cominciavano a riconsiderare il proprio appoggio al "governo del cambiamento", emerge una perplessità: "Questi populisti saranno indubbiamente razzisti, ma a livello di lotta al capitale giocano un ruolo, con tutta evidenza, antagonista. Ci sarà magari – direbbe il sottotesto – da educarli civilmente e insegnargli che gli immigrati non sono bestie ma compagni. Nel complesso, però, stanno dalla parte giusta: contrastano il capitale".

È un’illusione aberrante, alimentata dalla grancassa dell’informazione conservatrice che aziona le sirene per le inquietudini dei mercati. Una questione sulla quale occorre fare massima chiarezza con la massima urgenza, perché in tale confusione con, da una parte, l’allarme rosso della grande borghesia, dall’altra i canti di vittoria della medio-piccola, si rischia di ridurre il campo in un aut-aut esiziale da qualunque parte il proletariato si schieri. E le uscite sinistre di certe… sinistre (?) non aiutano.

Nel merito della bozza del Piano nazionale delle riforme imposto dal M5S a Tria, in attesa del placet della Commissione Europea, già incassato quello di Confindustria, esso conferma tutte le peggiori misure antioperaie del precedente governo, anzi le peggiora aggiungendo tagli alla spesa pubblica (sanità, istruzione, manutenzione infrastrutture, assistenza e protezione sociale) dello 0,1%, 5 miliardi, e giurando sull’accelerazione del risanamento del debito pubblico attraverso «entrate straordinarie» ricavate allo Stato da contratti con privati ai quali svendere ulteriori pezzi di gestione pubblica.
Le «tempestive» privatizzazioni che stabiliva lo scorso governo si faranno, oltre che tempestive, più selvaggiamente estensive. E le pensioni di anzianità verranno cesoiate al fine di spostare i fondi in altra spesa sociale, già a partire dalla abolizione dell’APe social, dichiarata prima della presentazione del testo.

Ma il discusso oggetto del Def è la riduzione del rapporto deficit/Pil, cioè del rapporto tra le entrate e le uscite delle casse dello Stato. Risolvendosi a tutto danno delle entrate, in un pompato vantaggio delle uscite, portando il disavanzo al 2,4% (27 miliardi in più) dall’1,6%. Ben al di sotto, comunque, di quanto era nei piani di detassazione di Renzi, che lo proponeva al 2,9. E diligentemente, dentro la prescrizione del Patto di stabilità, che parametra il 3%. Lo «schiaffo all’Europa», ancora una volta, non si vede in cosa consista, se non in una propaganda sempre più smaccata.

È matematico, del resto, che da politiche di flat tax e condono fiscale lo Stato non può che perderci.
Un po’ meno lo è capire come mantenere, in un quadro simile, la promessa di reddito di cittadinanza alla mezza Italia che ha votato M5S principalmente nel miraggio di questo sussidio, ma si può azzardare una previsione: il reddito di cittadinanza non esisterà. Nel senso che, innanzitutto, viene già ridimensionato e limitato alla sola fascia di povertà assoluta e ai soli italiani; ma per quello che resterà, verrà erogato per un tempo tanto breve da renderlo come inesistente. I Centri per l’impiego somministreranno tempestivamente offerte di casuale, inutile, sottopagato lavoro a termine ai richiedenti (rinvigorendo come per magia i piccoli esercenti che, se prima a questa frode ricorrevano in nero, adesso sono aiutati e lubrificati dallo Stato), rigorosamente prima del termine alla cui scadenza partirebbero i 780 euro.
Sarà sulla base di questo rinnovato rigore che si attuerà la «rifondazione» dei Centri per l’impiego sventolata da Di Maio? Si hanno tutte le ragioni, non mezza in contrario, per pensare di sì.

Il contenuto del Piano è, dalla prima parola all’ultima, un regalo agli imprenditori, un’illusione e un danno per i lavoratori; liberista e antisociale al massimo grado nel solco e nel peggioramento di tutti i governi precedenti.
Il messaggio è questo: «Cari creditori, vi paghiamo tutto, ma per pagarvi tutto, non abbiamo bisogno di scontentare maggiormente un popolo che potrebbe imboccare vie di rivoluzione. Lasciateci sforare la soglia perché quello che togliamo allo Stato, eliminando tasse, aliquote e fisco, lo recuperiamo dalla privatizzazione "accelerata". Quei soldi li versiamo al vostro Debito, con lo sforamento detassiamo e facciamo la carità ai proletari, consolidandone la fiducia e incastrandoli una volta per sempre».

Per che ragione, allora, tanto scetticismo di Tria, scudiero del capitale finanziario continentale, alla strenua difesa di quell’1,6%? Ragioni di “stabilità”, si dice, come dall’omonimo Patto. Ma stabilità di cosa, quando è lo Stato a rimetterci di tasca propria, non avvicinandosi a un centesimo del grande capitale (il rapporto debito/Pil non solo si rispetta, ma gli si spiega come si rispetta e gli si giura rinvigorita fedeltà)?

Cosa importa, ai “mercati”, se uno Stato va in deficit con le casse pubbliche? E come può importargli al punto da battere in ritirata dopo un tanto miserevole straccio di documento dove si giura di non torcergli un pelo? Per di più sullo sfondo di un ministro che minaccia le dimissioni e un Presidente della Repubblica che lo prega di rimanere "per il bene della patria"?
A che pro tutto questo teatrino?

La domanda merita una risposta, anzitutto perché si basa su un fatto vero, poi perché una risposta sbagliata finirebbe di irretire il proletariato nella ragnatela della reazione.
Perché l’inquietudine dei mercati?

Innanzitutto bisogna capire di cosa si parla quando si evocano i fantomatici mercati. Si tratta delle quotazioni in Borsa, di puro capitale finanziario, speculazione virtuale. Quando si parla del dietrofront di Piazza Affari non bisogna immaginare la fuga materiale degli imprenditori, ma il ripensamento degli azionisti internazionali da Milano a Wall Street. Le due figure convivono quasi sempre in un’unica persona fisica, ma il primo agisce con l’estorsione di plusvalore immediata, l’altra puntando sulle proprie e altrui lievitazioni future.
Davanti ai Bloomberg di Piazza della Borsa gli speculatori stanno come i giocatori davanti ai monitor delle corse ippiche, spostando continuamente le proprie percentuali di quotazioni dal cavallo che si mostra più debole a quello che trotta più regolarmente. Perciò non esiste, nell’immediato, nessuna fuga di capitale produttivo, il quale è in continua fuga non per effetto del Def, ma per la caccia di manodopera a basso costo da far lavorare 11, 12 ore al giorno in luoghi dove le imposte pesano meno di quelle italiane.

A questo punto rimane la domanda: perché lo scommettitore, a poche ore dalla vittoria del Def, ritira le sue mazzette (quotazioni e futures) dal cavallo Italia puntando su altri o sospendendole?
Di risposte ce ne sono almeno tre, e nessuna di esse è la rappresentazione di una conflittualità dei giallo-verdi verso i "poteri forti", benché Salvini ostenti questa postura sapendo essere la ragione del suo consenso popolare («Noi tiriamo avanti, i mercati se ne facciano una ragione»), prontamente spalleggiato da Di Maio che rasserena Moscovici («Siamo intenzionati a ripagare il debito, vi assicuro che scenderà»).

La prima risposta è nei titoli di Stato, pezzi di debito che il Ministero dell’Economia e delle Finanze vende ad azionisti perché li saldino per suo conto, guadagnando fior di interessi insieme naturalmente col rimborso del capitale impiegato. Se uno Stato dichiara la volontà di impoverirsi maggiormente, la prospettiva del rimborso e degli interessi tanto più si allontana dalle previsioni. Ecco perché con l’aumento del deficit aumenta il debito: i tempi si allungano e i tassi di interesse sulle obbligazioni crescono come sequoie.
Le casse dello Stato sono debitrici agli speculatori finanziari. Le poche risorse in loro disposizione sono già segnate, non possono essere manomesse senza conseguenze. Conseguenze che, nel caso di trasgressione al vademecum di Maastricht, causerebbero - nei timori degli affaristi - un deceleramento di queste risorse nelle casseforti della finanza e, probabilmente nel tempo, un’insolvenza dei debiti contratti con essa da parte dello Stato. Chi evoca lo spettro della Grecia non vaneggia. Non rompere col debito pubblico è un suicidio per qualunque nazione vari riforme anche a favore delle borghesie subalterne; e un suicidio accelerato, se si ingrana la marcia verso la bancarotta statale come questo governo fa, e come aveva fatto quello di Berlusconi.

Il capitale non è uno solo; si divide per settori e per classi. Così anche il capitale produttivo, incurante del futuro di insolvenza tra lo Stato e gli avvoltoi del mercato azionario, vuole o rivuole la sua fetta di torta. Il capitalismo dei distretti e delle libere professioni, ma anche fette considerevoli di grosso capitale produttivo come Eataly, abbandonano i vecchi partiti (PD e FI) agenti finora della borghesia finanziaria e del pareggio in bilancio, e tifano non solo uno Stato che ingrassa chi riesce ad acquistare BTP, ma che detassa chi non ne ha le capacità e vive solo di capitale accumulato. E, data la polarizzazione, i secondi crescono febbrilmente rispetto ai primi.

Una seconda ragione è la sfiducia politica dei grossi padroni nei confronti delle manovre del nuovo governo. L’aver con tanta impudenza schiaffeggiato il loro ambasciatore e tesoriere può dare l’impressione di un populismo dalla testa calda che non si sa dove vuole andare. Ma questo populismo non vuole andare da nessuna parte se non, a spron battuto, per il sentiero già segnato. Questi cresi della finanza, che intendono giusto i denari ma niente altro, non hanno chiara la situazione sociale italiana e internazionale e, con messaggi cifrati, i populisti reazionari provano a spiegargliela.

La via della formale democrazia è consumata, irreversibilmente logorata. La rabbia del popolo, la sete di sovversione, di rottura col sistema e con le vecchie regole quali strumenti di solo inganno e spoliazione continua, la violenza cieca che lo anima, testimonia della fine di un ciclo e dell’apertura di un altro.
Non si può scampare a questa realtà facendo finta di nulla e ripetendo il mantra del “tout va bien” cadetto.
L’odio del popolo nei confronti dei vecchi amministratori liberaldemocratici si respira per ogni strada come coltre di una fuliggine di una fonderia esplosa. Si è a un bivio: rivoluzione o reazione.
M5S e Lega sono per la reazione, ma non può essere una reazione normalmente conservativa come quella che perseguirebbero i partiti tradizionali. Occorre rivestire la reazione di rivoluzione, occorre mimare gesti rivoluzionari. È solo così che si può imbrigliare il consenso del popolo e poi gettarlo nelle secche di quel regime per il quale già lavorava l’anticamera del populismo, il bonapartismo altoborghese di Renzi.
In questo stanno i messaggi cifrati. Salvini e Di Maio sono la migliore combinazione per questo gioco.
Quando uno soddisfa il popolo atteggiandosi a sovversivo, l’altro si fa annunciare al Re assicurando che è tutta scena. C’era Di Maio a singolar tenzone con Tria, non Salvini, che si è accortamente tenuto da parte. Ancora Di Maio abbagliato dai flash e sulle prime pagine di tutti i giornali, e non Salvini. Ma a Di Maio è toccato dire «State tranquilli, paghiamo tutto!», mentre Salvini si è poi concesso il lusso del Fieramosca: «Se ne facciano una ragione, noi tiriamo per il popolo!».

È una lezione, questa, che qualcuno comincia a capire in politica estera. Angela Merkel si accorge che il vento è cambiato dal suo volo basso nei sondaggi. E si adatta subito: annuncia rimpatri e, nonostante ogni statistica dica l’esatto contrario, annuisce alle menzogne di Salvini circa un’Italia lasciata sola dall’Europa di fronte all’emergenza migranti. Ma la Borsa è il Parnaso degli dèi, lontana dalle cose umane, dagli umori che animano i produttori della ricchezza di cui essi entrano in possesso solo attraverso i giochini della speculazione. Su nubi di virgole e zeri, essa non è costretta alla machiavellica politica.
Qualcuno deve ancora capire lassù: la fase di transizione verso l’irrigidimento di un regime antioperaio e parafascista necessita di trasformazioni apparenti per garantire che niente si trasformi.

Una terza ragione risiede in quella frangia di affaristi che, a differenza degli ultimi, ha sufficiente lungimiranza. Conoscono come cominciano e come finiscono queste fasi. Le manovre populiste negli interessi della piccola e media borghesia immiseriscono il proletariato a un punto tale che esso, divincolato dalla illusione progressiva e sociale dei loro governi, ricostituisce le organizzazioni operaie, recupera la sue tradizionali forme di lotta e, malgrado la borghesia provvederà prontamente alla repressione più cruda, occupazioni, scioperi, sospensione della produzione e del profitto andranno a detrimento delle partecipazioni di impresa. Meglio spostarsi in lidi più sereni, meno gravidi di conflitto; lidi dove nessuno ha ancora alzato la testa e il capitale finanziario diluisce indistintamente la sua spoliazione tra tutte le classi subalterne. Uno scenario, questo, che non cessa di auspicare si ripristini anche in Italia. Ed anche per questo contribuisce a screditare agli occhi delle masse i parvenu avventuristi piccolo-borghesi con una fitta campagna di propaganda allarmista.

È un quadro di disperata putrefazione dilagante, da cui non si deduce che questo: il sistema capitalistico è come l’uomo che affonda nelle sabbie mobili. C’è un movimento oggettivo che lo risucchia inesorabilmente e lo condanna alla morte, ma se a questo movimento oggettivo l’uomo aggiunge i suoi movimenti convulsi per salvarsi senza un appiglio esterno al pantano, contrariamente alle sue illusioni sprofonda ancora più velocemente.
Quell’appiglio esterno è la necessità storica di un cambiamento di sistema reale. Di recidere alla radice l’albero del male. Di intraprendere la via di un’alternativa di sistema: una società socialista, un’economia pianificata, una prospettiva internazionale; che può instaurarsi solo con una rivoluzione del proletariato unito, scollandosi dallo specchietto per le allodole dei suoi nemici di classe, questi suoi orchi mascherati da caramellai.

Salvo Lo Galbo

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