Prima pagina

Autostrade e nazionalizzazioni

Lo Stato, gli affari, la sinistra, i giallo-verdi

21 Agosto 2018

Per un'alternativa di classe ad un progetto di regime

autostrade_benetton


«Il potere politico dello Stato moderno è solo un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese». Così affermava Il Manifesto di Marx ed Engels nel 1848.
Quante volte questa concezione è stata respinta, irrisa, denunciata come ideologica o in ogni caso superata! Eppure cosa emerge dall'esperienza concreta della vicenda autostrade? Emerge la conferma clamorosa di questa verità antica del marxismo, contro tutti i suoi detrattori.


IL COMITATO D'AFFARI DEI BENETTON

Al di là delle molte cose da accertare nella tragedia di Genova, alcune verità sono talmente evidenti da non lasciare spazio al minimo dubbio. Una su tutte: Autostrade (per l'Italia) è stato un grande affare garantito dallo Stato. Un grande affare per i Benetton, e per gli altri ventisei concessionari privati. Lo Stato non ha concesso ai capitalisti la sola gestione della rete autostradale, ma tutto quanto poteva loro concedere.

In primo luogo ha affidato interamente ad Autostrade la verifica strutturale delle infrastrutture e della loro condizione, limitando le proprie competenze alla verifica di asfalto, illuminazione, e altre questioni minori. Del monitoraggio e manutenzione delle strutture - cioè dell'essenziale - doveva occuparsi il concessionario. Come? Con l'autocertificazione. In altre parole, pieni poteri ad Autostrade.

In secondo luogo luogo ha concesso ad Autostrade il diritto di caricare sui pedaggi il “recupero” finanziario di eventuali investimenti futuri. Il risultato è che tra il 2008 e il 2016 le tariffe sono aumentate del 25% (a fronte di una crescita dell' inflazione del 11,5%), mentre gli investimenti sono stati molto meno di quelli previsti (1,3 miliardi invece che 9,8 miliardi). Dunque profitti da favola: 10 miliardi di utili dal '99.

In terzo luogo ha progressivamente esteso i tempi della concessione, prima sino al 2038, poi sino al 2042. Un moltiplicatore dei profitti, tanto più in un quadro di semi-monopolio.

In quarto luogo ha stipulato un contratto che assicurava preventivamente al concessionario un indennizzo enorme in caso di revoca della concessione, anche nel caso di inadempienza del concessionario stesso: precisamente un indennizzo pari alla somma degli utili previsti per tutti gli anni residui della concessione. Per stare all'ipotesi di un indennizzo oggi, in caso di revoca, si tratta - come è noto - di circa 20 miliardi.

In quinto luogo ha allegato alla convenzione con Autostrade ben 25 allegati segreti, concentrati in particolare sugli aspetti finanziari del patto. Formalmente “al fine di garantire gli azionisti da ogni rischio di insider trading”; nei fatti per nascondere all'opinione pubblica il corpo del reato.

In questo quadro generale è facile capire la ragione dello straordinario successo di Borsa del gruppo Atlantia, le cui azioni sono lievitate negli anni sul mercato finanziario come poche altre. Lo Stato ha davvero funzionato come procacciatore e garante dello straordinario affare privato di una delle grandi famiglie del capitalismo italiano, a scapito dell'interesse pubblico. Innanzitutto, come i fatti dimostrano, della sicurezza pubblica più elementare: quella della vita.


TUTTI I GOVERNI CORRESPONSABILI DI UN CRIMINE.
ED ANCHE LE SINISTRE CHE LI HANNO SOSTENUTI

È importante osservare che tutti i governi italiani degli ultimi vent'anni sono stati compartecipi di questo affare. Tutti, senza eccezione, di centrodestra come di centrosinistra.

Anche il deputato Matteo Salvini - oggi ministro applaudito degli Interni - votò nel 2008, in compagnia di Berlusconi, il cosiddetto decreto salva Benetton, che esentava lo Stato persino dall'obbligo di verifiche periodiche della convenzione appena stipulata. La Lega di governo, nel 2010, votò ulteriori regalie nella medesima direzione.

Ma è indubbio che sono stati i governi di centrosinistra, nel lungo periodo, i principali promotori del grande affare. È stato il primo governo Prodi nel 1996-1998 ad avviare la privatizzazione delle autostrade, dentro il più grande piano di privatizzazioni dell'intera Europa. È stato il successivo governo D'Alema, nel 1999, a vendere le autostrade a Benetton, uno dei principali “capitani coraggiosi" di quel capitalismo italiano emergente di cui il dalemismo si fece interprete (basti pensare al regalo delle telecomunicazioni a Colaninno). Infine è stato il secondo governo Prodi, nel 2007, a stipulare la famigerata convenzione con gli azionisti di Autostrade che garantiva loro pieni poteri in fatto di sicurezza autostradale e vantaggi secretati di natura finanziaria.
Nessuna meraviglia. Il centrosinistra è stato nella Seconda Repubblica l'espressione più diretta del grande capitale, grazie alla contiguità di relazioni organiche con quell'ambiente. Il comitato d'affari è stato innanzitutto il suo.

Va solo aggiunto, per amore di verità, che i gruppi dirigenti della sinistra italiana cosiddetta radicale sono stati una stampella determinante di quel comitato d'affari. I due governi Prodi che affidarono a Benetton le autostrade ebbero il sostegno (il primo) e la diretta compartecipazione (il secondo) dei gruppi dirigenti del Partito della Rifondazione Comunista, da Bertinotti a Ferrero. Il governo D'Alema che siglò la svendita definitiva della rete ebbe i voti di Cossutta, Diliberto, Rizzo. Che nessuno di questi si assuma oggi le proprie responsabilità è onestamente imbarazzante. Che poi il segretario del PRC, Maurizio Acerbo, senta addirittura il bisogno di rivendicare "l'opposizione di sempre del PRC alle privatizzazioni” (testuale, 18 agosto) appare davvero spudorato. Il passato non si può rimuovere, tantomeno capovolgere, perché vive nel presente. E non si parli di “errori”, si tratta di crimini. Se M5S e Lega governano oggi l'Italia è anche e innanzitutto per questo.


GOVERNO GIALLO-VERDE E GRANDE CAPITALE

"Tutto giusto”, dirà qualcuno, “ma ora il nuovo governo M5S-Lega non ha forse rotto quel comitato d'affari, imponendo finalmente la volontà del popolo? Non sono loro forse che revocano e denunciano la concessione ad Autostrade...? Come fate a chiamare comitato d'affari della borghesia un governo giallo-verde che la grande stampa padronale critica e detesta?”.

Questo senso comune si è fatto strada in ampi strati di lavoratori. I fatti di Genova l'hanno sicuramente rafforzato, come dimostrano gli applausi tributati ai nuovi ministri in occasione dei funerali delle vittime. Dal canto loro settori diversi di estrema sinistra, di rito sovranista, vedono nei recenti posizionamenti dell'esecutivo la conferma del proprio sostegno, “critico” o meno, al nuovo governo "del popolo".
In realtà questo senso comune è un riflesso dell'arretramento profondo del movimento operaio, della sua coscienza politica, della sua stessa avanguardia.

È vero, il nuovo governo non è espressione organica e diretta del capitale finanziario, a differenza dei vecchi partiti dell'establishment. Non lo è come non lo sono tutte le forze della nuova destra populista e sovranista emerse in Europa e in America (trumpismo). M5S e Lega esprimono piuttosto l'egemonia di una media borghesia (il capitalismo dei distretti, la Lega; le libere professioni, il M5S) sulla netta maggioranza dei lavoratori salariati e la larga massa dei disoccupati. Una egemonia che ha capitalizzato a destra il suicidio della sinistra, complessivamente intesa, e il discredito profondo dei partiti borghesi liberali. Non sappiamo se questo nuovo governo giallo-verde si consumerà in breve tempo, o si stabilizzerà facendosi regime. Ma un regime piccolo-medio-borghese è impossibile come regime indipendente in un paese imperialista come l'Italia. Può governare solo in rappresentanza del sistema capitalista e del grande capitale finanziario. Questa legge fisica è confermata da tutta la storia del '900, inclusa la vicenda, ovviamente diversa, del fascismo e del nazismo. Non farà certo eccezione, su scala assai più modesta, per Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

È vera invece un'altra cosa. Non tutti i comitati d'affari della borghesia hanno lo stesso formato ed equilibri interni. Non tutti rispondono alla stessa composizione e dinamica.
I vecchi partiti borghesi liberali (in primis i Democratici di Sinistra e poi il Partito Democratico) avevano una relazione lineare col capitale finanziario. Ne registravano direttamente gli interessi, ne applicavano in modo diligente le ricette. Anche per questo, negli anni della grande crisi hanno finito col dilapidare il proprio consenso sociale. Il renzismo aveva provato a costruire sulla crisi del vecchio PD un proprio progetto populista bonapartista con l'obiettivo di arginare il nuovo populismo a cinque stelle (vedi operazione 80 euro) e sfondare nell'elettorato della destra (vedi distruzione dell'articolo 18). Era il progetto del "partito della nazione". Ma il fallimento di questo progetto è stato tanto rapido quanto la sua ascesa.

Le nuove forze di M5S e Lega, beneficiarie di quel fallimento, agiscono ora in forma diversa, con un altro codice di condotta.
Da un lato assicurano il grande capitale sul pagamento del debito pubblico alle banche, garantiscono i padroni sull'articolo 18 (a piena tutela del capitale nella lotta di classe contro il lavoro), preservano interamente, al di là delle chiacchiere, il lavoro precario (inclusa l'estensione dei contratti a termine sino al 30% dell'organico aziendale, peggiorando persino il decreto Poletti), offrono alle grandi ricchezze l'eldorado della flat tax. Il comitato d'affari è dunque ben saldo: i ministri Tria e Moavero - in linea diretta con Mattarella - incarnano non a caso in quel comitato la presenza diretta del grande capitale.
Dall'altro lato i partiti populisti vogliono negoziare col capitale finanziario un equilibrio nuovo, in sede nazionale e internazionale. Si presentano nella UE con un piglio contrattuale sulle politiche di bilancio, civettano col trumpismo in funzione di un riequibrio antitedesco e antifrancese (sulla Libia, ad esempio), cercano di assicurarsi in Cina, e persino in Russia, possibili futuri interventi emergenziali a sostegno dei titoli di Stato tricolori. Sul piano interno ostentano posture stataliste, come sul tema Autostrade. Tali posture sono anche un fatto di propaganda a fini di consenso, ma non solo. Riflettono l'aspirazione a centralizzare nelle mani del nuovo governo alcune leve di controllo economico, in funzione del rafforzamento del peso politico dei nuovi parvenu. Vedremo se e in che misura queste posture stataliste si tradurranno in atti concreti, superando le contraddizioni interne alla nuova maggioranza, con la Lega in posizione più prudente, e il M5S che gioca allo scavalco; oppure se arretreranno (rinegoziazione delle concessioni).
Ma chi vedesse in eventuali misure stataliste il segno della natura “progressista” o addirittura di sinistra e anticapitalista del nuovo governo dovrebbe ricordare che nel quadro della società borghese lo statalismo non è affatto di per sé misura di progresso. Bismarck realizzò la nazionalizzazione delle ferrovie negli stessi anni in cui varò le leggi eccezionali antisocialiste. Il regime fascista negli anni '30 istituì l'IRI nel mentre bastonava il movimento operaio e schiacciava nell'illegalità le opposizioni. La natura di ogni scelta economica va dunque collocata nel contesto politico che la trascende. È il contesto che la spiega, non viceversa.


UN PROGETTO DI REGIME CONTRO I PROLETARI

Il governo giallo-verde è un governo reazionario che dispone di un vasto consenso di massa. Questo consenso di massa è la sua forza, la leva della propria scalata nello Stato borghese e della propria capacità negoziale nel comitato d'affari del grande capitale.

Ma preservare il consenso non sarà facile, perché tenere insieme le garanzie offerte al grande capitale (riduzione del debito e detassazione massiccia) con le promesse sociali ed elettorali (abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza...) è un'autentica quadratura del cerchio, tanto più in un paese capitalista esposto alla minaccia strutturale della crisi finanziaria per via del suo gigantesco debito pubblico. Da qui il diversivo reazionario contro gli immigrati come le campagne per l'ordine e la sicurezza: solo dirottando contro falsi nemici il malcontento sociale presente e futuro è possibile ammortizzarlo e persino capitalizzarlo, cercando di scavallare contraddizioni altrimenti insolubili.

La politica reazionaria non è dunque un tratto specifico della politica governativa in qualche modo separabile dal resto (“fanno politiche giuste tranne sull'immigrazione”, come recita nel migliore dei casi il sovranismo di sinistra). La politica reazionaria del governo M5S-Lega è la forma costituente di un nuovo possibile regime e del suo blocco sociale interclassista. Non certo un regime fascista (anche se le organizzazioni fasciste appoggiano il nuovo governo), ma certo un regime autoritario di tipo orbaniano o trumpiano. Un caso unico tra i paesi imperialisti dell'Unione Europea.

Salvini e Di Maio offrono questa prospettiva al capitale finanziario come soluzione conveniente per i suoi interessi. Gli offrono in pratica il proprio consenso di massa come elemento di scambio per la tenuta politica del suo dominio: “Nessun'altra forza politica è in grado di portarvi in dote una base di massa così vasta. È in fondo la base di appoggio che vi serve per restare a cavallo, di fronte al rancore, al risentimento, alla disperazione di tanta parte della società italiana dopo gli anni della grande crisi. È soprattutto, per voi, una garanzia contro la possibile ripresa del movimento operaio e della lotta di classe. Ma per nutrire questo consenso dobbiamo recitare la demagogia, ridurre le tasse alla piccola borghesia, concedere qualche piccola elemosina sociale, forzare qualche vecchio vincolo, persino danneggiare, se necessario, qualche vostro interesse particolare (Benetton), rompere insomma il vostro galateo istituzionale. Pensateci. È nel vostro interesse generale che noi riusciamo nell'operazione, dateci fiducia, ne sarete ripagati”. Sono le parole, immaginarie, con cui i ministri giallo-verdi si rivolgono oggi al grande capitale. È il messaggio in codice della loro politica rivolto ai poteri forti.

La grande borghesia, ampiamente scompaginata nei propri assetti interni, non è ancora convinta dell'offerta, non sa prevedere la durata dei nuovi venuti, teme la crisi finanziaria, prende tempo, in uno stato di grande confusione. Tutta la grande stampa borghese testimonia questo disorientamento dell'establishment, politicamente decapitato delle vecchie rappresentanze e privo come non mai di un'alternativa politica.

Ma se l'operazione dovesse riuscire, se il nuovo governo si stabilizzerà, se stabilizzandosi si trasformerà in regime, se il nuovo regime saprà preservare la pace sociale, anche il grande capitale finirà col benedirlo e farlo proprio. Con lo stesso incenso con cui benedì la Prima e la Seconda Repubblica. Naturalmente contro i proletari.

Per questa stessa ragione non è possibile costruire un'opposizione di massa al nuovo governo restando sul puro terreno democratico, ossia brandendo valori progressisti, testimoniando superiorità morale, denunciando persino, in qualche caso, un improbabile fascismo realizzato.
È possibile solo riconducendo le ragioni democratiche (antirazziste, antifasciste, per i diritti civili) alle ragioni sociali di 17 milioni di lavoratori salariati cui il nuovo governo non potrà offrire nulla se non pose demagogiche e promesse truffaldine.
È possibile solo liberando i salariati dal blocco sociale reazionario che oggi li assorbe e che li vuole subalterni.
È possibile solo rompendo con l'opposizione confindustriale del PD, oggi di fatto funzionale alla tenuta di quel blocco sociale reazionario.
È possibile solo combinando il sostegno a ogni lotta sociale di resistenza con una proposta di unificazione e mobilitazione di massa attorno ad una piattaforma indipendente.
È possibile solo riconducendo la mobilitazione di massa alla prospettiva di un'alternativa di sistema, un'alternativa tanto radicale quanto radicale è il nuovo livello dello scontro.
È la prospettiva del governo dei lavoratori.


SOLO I LAVORATORI E LE LAVORATRICI POSSONO RICOSTRUIRE LA SOCIETÀ SU BASI NUOVE

Solo i lavoratori e le lavoratrici possono ricostruire la società su basi nuove. Questo ci dicono la tragedia di Genova e i mille crimini del profitto.

In questi giorni, dopo i fatti di Genova, non ci sono solo gli applausi a Salvini e Di Maio. C'è, nonostante tutto, anche altro. Milioni di persone in tutta Italia hanno percepito in forme nuove la propria insicurezza sociale, la fragilità generale delle infrastrutture, il rischio connesso per la propria vita. Le responsabilità sono attribuite per lo più ai politici del passato, o generalmente ai “politici”, non al sistema capitalista. È il riflesso dell'attuale senso comune di massa. E tuttavia l'intreccio tra lo Stato, le ragioni del profitto, l'intero corso politico di vent'anni di privatizzazioni, è emerso prepotentemente in tutta la sua evidenza con una identificazione emotiva elevatissima. Non a caso, ovunque si moltiplicano denunce sulla pericolosità di ponti e viadotti del proprio specifico territorio, appelli, petizioni, persino comitati. In tutto questo confluiscono inevitabilmente interessi localisti o ingenuità, ma si esprime anche, in forma confusa, la diffidenza verso il profitto nel nome dell'interesse pubblico.

Salvini e Di Maio lavorano a dirottare questo sentimento contro il PD e a subordinarlo al proprio corso politico reazionario. Occorre dare a questo sentimento una traduzione opposta, in direzione apertamente anticapitalista: “I Benetton sono solo la punta dell'iceberg. Un'intera classe capitalista ha fatto affari sulla pelle della sicurezza pubblica. Sono gli stessi che hanno saccheggiato lavoro e pensioni. Cambiare "i politici” per mantenere in piedi questa classe di criminali e di strozzini significa cambiare tutto per non cambiare nulla. Se ne devono andare i grandi azionisti, i banchieri, i costruttori. Solo i lavoratori possono ricostruire la società su basi nuove. Ripartiamo da un grande piano nazionale di nuovo lavoro, territorio per territorio, per rifare l'Italia dalle sue fondamenta sulla base della ricognizione dei bisogni e necessità sociali”.

Le parole d'ordine del momento sulla questione autostrade debbono introdurre questa prospettiva generale:

- Via, immediatamente, tutti i segreti degli accordi pattuiti con Autostrade e con ogni altra concessionaria pubblica. Per l'abolizione più generale del segreto commerciale.

- Revoca immediata di tutte le concessioni pubbliche ai 27 gestori privati della rete autostradale. Annullamento di tutti gli accordi pattuiti e delle loro clausole truffaldine. Rifiuto di ogni indennizzo come risarcimento della revoca.

- Nazionalizzazione dell'intera rete autostradale. Esproprio di Autostrade senza indennizzo per i grandi azionisti e sotto controllo dei lavoratori; passaggio dei 10.000 dipendenti di Autostrade alle dipendenze della nuova società statale, con piene garanzie contrattuali. Annullamento dei debiti contratti dalle aziende espropriate verso le banche. Investimento delle risorse finanziarie, patrimoniali, tecniche e professionali ricavate dall'esproprio, nell'azione di risarcimento dei danni prodotti e delle famiglie colpite, come nell'azione di monitoraggio e manutenzione delle infrastrutture.

- Controllo sociale da parte dei lavoratori, e di tecnici di loro fiducia, sullo stato di sicurezza della viabilità su scala nazionale.

- Un vasto piano di investimenti pubblici per la manutenzione e la ricostruzione della rete autostradale, per la dotazione antisismica delle abitazioni ed edifici pubblici, per il riassetto idrogeologico del territorio (per complessivi 400 miliardi attualmente stimati come necessari) finanziati dalle uniche misure capaci di liberare le risorse richieste: l'abolizione del debito pubblico verso le banche (con la loro nazionalizzazione senza indennizzo per i grandi azionisti) e una tassazione progressiva sui grandi patrimoni, profitti, rendite.

Nessuna di queste misure è rinunciabile senza rinunciare ad un'alternativa vera. Nel loro insieme comportano una rottura drastica con le regole del gioco della società borghese: economiche, politiche, giuridiche, su scala nazionale ed europea; comportano il rovesciamento di quel comitato d'affari che si chiama Stato borghese; comportano un cambio di guida alla testa della società, l'organizzazione del potere di una nuova classe sociale. Comportano una soluzione rivoluzionaria: una Repubblica dei lavoratori per i lavoratori, basata sull'organizzazione della loro forza.

Partito Comunista dei Lavoratori

CONDIVIDI

FONTE