Interventi

Intervista a Stefania Prandi

Autrice di «Oro Rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo»

22 Luglio 2018
Prandi


Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (ed. Settenove) è uno di quei libri-pugno nello stomaco. In un’agilissima narrazione di meno di un centinaio di pagine, l’autrice indaga tutte le pieghe del bracciantato femminile in Spagna, Italia e Marocco, frutto di un lavoro di ricerca e approfondimento di oltre due anni. Una narrazione agile, fotografica, ma che non tralascia nessun aspetto di una condizione che definire disperata è poco.
“Delicate, pazienti e costano poco.” Ma non finisce qui. Non solo queste lavoratrici sono pagate meno degli uomini a parità di lavoro, ma con una frequenza atroce sono costrette a subire violenze e stupri, in un clima di omertà a cui partecipa tutta la società civile, che si schiera a tutela della ricchezza del territorio, dell’oro rosso.

Di seguito pubblichiamo un’intervista con l’autrice, la fotografa, giornalista e scrittrice Stefania Prandi.

Perché hai scelto proprio di indagare il bracciantato femminile tra tutte le tematiche con cui sei venuta a contatto nella tua professione?
Da anni mi occupo di questioni di genere e di temi sociali legati al mondo del lavoro e alla violenza. Il progetto Oro rosso è cominciato con un lavoro fotografico in Sicilia, nella zona di Vittoria. Dopo averlo pubblicato all’estero, ho pensato di approfondire il tema con letture di testi accademici, partecipando a convegni, e ho deciso poi di allargare il progetto per verificare se esistesse un vero e proprio fenomeno di violenza di genere sul lavoro in agricoltura anche in altre aree del Mediterraneo dove la manodopera è in maggioranza femminile.

In tempi di polemiche per il #metoo e l’ondata di victim shaming che ha interessato le attrici coinvolte nel caso Weinstein, cosa hanno in comune il dorato mondo di Hollywood e i campi di Ragusa?
Il meccanismo della violenza di genere sul lavoro è lo stesso a diversi livelli. C’entra con il potere maschile, con il sessismo e la discriminazione contro le donne.
Il caso Weinstein ha scosso l’opinione pubblica in tutto il mondo, ma in alcuni Paesi come l’Italia si è assistito a una reazione negativa al movimento di discussione che si stava formando. Sui giornali, radio e televisioni, e sui social media siamo state testimoni di un ripetuto victmin blaming, termine inglese che significa colpevolizzazione della vittima. Questo processo è molto diffuso nell’area dei Paesi del Mediterraneo ed è stato messo in atto da uomini e da donne. Purtroppo, infatti, sono molte le donne che ancora introiettano il sistema di oppressione sessista. Il victim blaming consiste nel ritenere la vittima di un abuso o di un crimine parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto. Un atteggiamento di colpevolizzazione dovuto all’idea che le colpe non vanno ricercate nell’aggressore, ma in chi subisce, nelle donne che dovrebbero “svegliarsi”, smettere di credere che il mondo dovrebbe essere un posto più giusto, e imparare ad adattarsi, a schiavare i colpi della “sorte”.

In tutto il libro emerge come le braccianti siano sottoposte a una doppia oppressione, di classe (lo sfruttamento del loro lavoro a condizioni indegne) e di genere (le molestie e le violenze sessuali). Filo comune di tutte le esperienze è l’autocolpevolizzazione delle donne, che non denunciano né parlano anche per non vedersi addossata la responsabilità della violenza. Come pensi si possa spezzare questo malsano rapporto vittima-aguzzino? Che ruolo ha la morale, il patriarcato, in questo business?
In realtà molte delle donne che ho incontrato hanno denunciato o comunque hanno adottato strategie di ribellione quotidiana. Le donne vogliono parlare e vogliono avere giustizia. Molte sono consapevoli della loro condizione di subalternità e vorrebbero avere più diritti, ma non sanno come. È chiaro che c’è la paura di parlare, per ragioni anche di incolumità fisica. I datori sanno di essere impuniti. Considerano le lavoratrici loro proprietà. Per le donne è difficile dire di no perché per farlo hanno bisogno di rendersi conto subito di quello che sta succedendo. Purtroppo la violenza può arrivare alla fine di un’escalation di fatti apparentemente tollerabili. Inoltre, bisogna sapersi difendere e avere un’alternativa per salvarsi.

La violenza a cui sono sottoposte le braccianti è rivoltante. Anche noi, come sicuramente avrai fatto tu, ci siamo chieste “come fare in modo che non accada più?” Ti sei data una risposta?
Ho cercato di raccontare degli spaccati di realtà e mostrare la possibile ampiezza di un fenomeno sistematico come quello della violenza sul lavoro. Credo che già un primo passo, per chi è interessato a capire le condizioni di chi raccoglie e impacchetta la verdura che arriva sulle nostre tavole, sia quello di rendersi conto di come stanno le cose. Il passo successivo è fare in modo che si crei un’opinione pubblica per un cambiamento concreto. Siamo molto lontane dalla soluzione al problema, mancano ancora gli strumenti per risolverlo.

Qual è l’atteggiamento dei sindacati? Difendono le donne, le aiutano, o in alcuni casi vengono coinvolti dall’omertà che circonda il business dell’oro rosso?
Dipende dalle zone e dai sindacati. Soprattutto in Puglia c’è una parte della società civile che vorrebbe un cambiamento e anche parte del sindacato. In Sicilia ci sono persone come Don Beniamino Sacco che da anni denuncia gli abusi, nonostante le critiche. Inoltre, è stata approvata la legge anti-caporalato che dal punto di vista formale fornisce uno strumento importante per la punibilità di caporali e proprietari che compiono i crimini. Certamente tutto questo non è ancora abbastanza. A frenare le spinte di cambiamento ci sono fattori socioculturali e un mercato del lavoro deregolarizzato, dove non ci sono diritti per i più deboli, ma vige la legge del più forte. È incredibile come in Italia decenni di conquiste sul lavoro siano state spazzate via in pochi anni e a pagarne le conseguenze siano proprio le classi meno abbienti e le donne.

Anche le associazioni caritatevoli non sembrano offrire una valida alternativa. Noi non vediamo altra soluzione se non l’autorganizzazione delle lavoratrici. Pensi che sia fattibile, nonostante le condizioni tanto difficili e la loro estrema dispersione?
Oro rosso fa anche parte dell’inchiesta realizzata con la giornalista tedesca Pascale Mueller, uscita in Germania su BuzzFeed e Correctiv e su BuzzFeed in spagnolo. A poche settimane dalla pubblicazione di questi articoli in Spagna è scoppiato il caso. Politici e pubblici ministeri, appellandosi alla nostra inchiesta, hanno chiesto che venissero aperte delle indagini per fare chiarezza sulla situazione delle braccianti di Huelva. Nella provincia andalusa, solo quest’anno, sono state impiegate 18mila donne marocchine. Oltre a loro, nei campi, lavorano polacche, bulgare, romene e anche spagnole, soprattutto nel settore della trasformazione. Le donne migranti vivono a gruppi di 20, 50, anche 100, in casolari fatiscenti in mezzo alla campagna, in container immersi nelle serre, in alcuni casi circondati dal filo spinato e dalle guardie. Ogni anno nella provincia di Huelva si fatturano oltre 320 milioni di euro, un giro di denaro tale che benché tutti sappiano degli abusi, nessuno voglia parlarne.
Nelle scorse settimane diverse braccianti della zona di Huelva, straniere e spagnole, hanno sporto denuncia e 400 braccianti marocchine sono scese in piazza spontaneamente a manifestare appoggiate dal SAT, Sindicato Andaluz de Trabajadores. I processi però devono ancora cominciare e al momento le braccianti sono di base sole sul territorio. Racconto questo per spiegare che l’auto-organizzazione è possibile, ma senza un sostegno del territorio e della società non si va molto lontano.

In generale, su un piano meramente umano, qual è stata la cosa più difficile e dolorosa che hai affrontato in questo lungo reportage?
Molti aspetti sono stati difficili. Essendo un lavoro da freelancer, la ricerca dei fondi è stata laboriosa e lunga perché per ogni zona che ho visitato avevo bisogno di un budget minimo per coprire le spese degli spostamenti, dell’alloggio, di chi mi ha messo in contatto con le lavoratrici e ha tradotto le lingue che non conoscevo, come l’arabo. Per riuscire a sostenere i costi vivi del progetto ho vinto dei grant e ho collaborato all’organizzazione di un crowdfunding. È stato difficile condurre l’inchiesta a causa della mancanza di consapevolezza e dell’omertà diffusa nei territori. Spesso mi è stato consigliato, o meglio intimato, di lasciare perdere. La violenza sul lavoro, che include molestie sessuali, insulti, aggressioni fisiche, ricatti, fino al vero e proprio stupro, nei paesi del Mediterraneo sui quali mi sono concentrata perché sono tra i principali esportatori di verdura e frutta in Europa, è ancora tabù. È difficile da riconoscere e nominare per associazioni e sindacati, non viene considerata a dovere da chi ha il compito di esercitare la legge e quindi per le donne è difficilissimo sperare di avere giustizia. Anche l’organizzazione del materiale è stata complessa perché ho sempre cercato di non appropriarmi dei discorsi altrui, di non parlare per le altre, di non cadere nel pietismo o nel sensazionalismo, di non cedere alla vittimizzazione.

Boicottare le aziende che sfruttano la manodopera femminile nel modo che hai descritto è una soluzione fattibile? Come possiamo essere certi di non incentivare ulteriormente questo sfruttamento con i nostri consumi? O forse è necessaria una soluzione più radicale?
Sono domande difficili che credo andrebbero indagate a livello collettivo e con diverse professionalità. Da parte mia credo che boicottare aziende che compiono crimini sia doveroso, ma senza un cambio di sistema si risolve davvero poco. Anzi, il rischio è di trovare capri espiatori “facili”. Lo sfruttamento e la violenza di genere sul lavoro sono un fenomeno che va affrontato in quanto tale, nella sua ampiezza e complessità.

Anche davanti a proposte quali il reddito di cittadinanza o di autodeterminazione, noi abbiamo sempre rivendicato il diritto al lavoro, ossia un’indipendenza economica e professionale di lungo periodo, che però non sia sfruttamento. Secondo te, il lavoro senza sfruttamento può essere in fondo la vera chiave di volta per la liberazione femminile, anche per le braccianti?
Le molestie sessuali sono un abuso di potere e contribuiscono a mantenere le donne in una posizione subordinata. Non vanno interpretate come incidenti isolati e personali, ma come una questione sociale che riguarda sette donne su dieci nell’arco della vita lavorativa. Le donne vengono molestate in quanto donne, cioè appartenenti al genere femminile. Questo fa sì che le molestie siano una vera e propria discriminazione sessuale. Lavorare è fondamentale per essere indipendenti, e le molestie sessuali penalizzano l’accesso al reddito da lavoro delle donne.

Collettivo Femminista Rivoluzionario

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