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Lotte comuni, ma per quale progetto?

Di seguito il testo del volantino distribuito dai compagni e dalle compagne del PCL all'assemblea nazionale di Potere al Popolo

19 Marzo 2018
afaca


Care compagne, cari compagni,

il voto del 4 marzo segna uno scenario preoccupante per i lavoratori e tutti gli sfruttati. Dovremmo tutti partire da qui, più che da un grido di giubilo (“siamo felicissimi”). E non solo perché l'ostentazione di gioia non è davvero motivata da alcun risultato elettorale, ma perché il punto di partenza di un progetto di trasformazione non è mai il proprio ombelico, ma la lotta di classe e le sue prospettive.


NON C'È DA ESSERE “CONTENTISSIMI”

Il renzismo è crollato, ma il suo crollo è stato capitalizzato da forze egualmente se non più reazionarie. Pensiamo solo a una Lega che a Macerata passa dallo 0,6% al 20% dei voti. Ma pensiamo anche al M5S, che tanti a sinistra per anni si sono ostinati a presentare come alleato dei lavoratori e che oggi riceve la benedizione congiunta di Confindustria, di Fiat e della CEI. Nel mentre promette ai padroni nuovi tagli alle tasse, e alla UE un taglio del debito pubblico di 40 punti sul PIL...

Ma se questo è avvenuto, i gruppi dirigenti della sinistra ne sono responsabili, tutti. Certo i D'Alema e i Bersani che hanno retto il moccolo a Renzi persino su Jobs Act e Buona scuola. Ma anche i gruppi dirigenti di una sinistra cosiddetta radicale, che al piede di partenza della grande crisi suicidavano Rifondazione Comunista sull'altare di Prodi (per votare la detassazione dei profitti) e poi la imboscavano sotto le vesti di Ingroia. Mentre la burocrazia CGIL dava il semaforo verde alla legge Fornero, portava sul binario morto la lotta al Jobs Act, smobilitava il movimento contro la Buona scuola e infine apriva col contratto metalmeccanici il nuovo grimaldello del welfare aziendale.

Ecco allora il senso del 4 marzo. Milioni di lavoratori, precari, disoccupati, abbandonati a sé stessi e traditi negli anni da coloro di cui s'erano fidati, hanno cercato a destra quello che non trovavano a sinistra. Abbagliati dalle nuove illusioni di una destra sociale che sventola le bandiere della “nazione” contro “l'invasione”, della rete contro “i politici”, del sovranismo contro Bruxelles. Insomma, del... “popolo” come comunità al di sopra delle classi e della loro lotta.

Compagne e compagni, non si rimonta la china se non si chiamano le cose con il loro nome.

Non si rimonta la china declinando a sinistra forme e linguaggio di questa destra. Civettando col populismo, o sostituendo anche noi i confini di classe con quelli geografici, o celebrando anche noi la “morte delle ideologie” e dei partiti (ma usando la manovalanza di quelli esistenti per presentarsi al voto).

Si rimonta la china se si ha il coraggio di andare controcorrente. Se si ricostruisce coscienza laddove è stata distrutta. Se si fa una scelta di classe, anticapitalista, internazionalista.


PER UNA SCELTA DI CLASSE: “DOVE SONO I NOSTRI”?

Una scelta di classe: “Dove sono i nostri?”, si era chiesto il collettivo Clash City Workers. Ma poi ha rimosso la risposta (giusta) che aveva dato. I “nostri” sono proprio i 17 milioni di lavoratori salariati, delle fabbriche, del terziario, dei trasporti, del pubblico impiego, che sono stati privati di ogni riferimento nel momento stesso in cui la grande crisi del capitale ne faceva carne da macello.

Il primo problema che abbiamo come avanguardia non è specchiarsi nel proprio mondo finendo con l'abbellire la propria nicchia, ma è lavorare in ogni lotta per dare una prospettiva a quei milioni.

Per unire in unico fronte tutte le lotte di resistenza. Per ricondurle ad una mobilitazione unitaria e di massa, tanto radicale quanto radicale è l'attacco del capitale. L'unica che possa riaprire dal basso lo scenario politico.

Perché allora, ad esempio, non unire nell'azione tutte le forze dell'avanguardia su una proposta di lotta rivolta alla massa, per una vertenza generale unificante che rivendichi il recupero dei diritti, la riduzione dell'orario a 32 ore a parità di paga, l'occupazione delle aziende che licenziano da parte dei lavoratori e il loro esproprio sotto il controllo operaio? Oppure perché non batterci insieme su una rivendicazione di salario dignitoso ai disoccupati che cercano lavoro, in contrapposizione alla truffa di un reddito di cittadinanza che mira a estendere il precariato e a comprimere i salari?

Ma i fatti dimostrano che una proposta mirata ad una svolta radicale del movimento operaio può essere messa in atto solo se si rompe apertamente con la burocrazia sindacale, non se si tace sulle sue responsabilità, come PaP ha fatto e continua a fare, e come fanno i gruppi dirigenti della sinistra (PRC e PCI) che di PaP sono tanta parte.

O ci si batte per un'altra direzione della classe, o ci si inchina davanti a quelle esistenti. Questo è il bivio.


PER UNA SCELTA ANTICAPITALISTA, NEL NOME DEL REALISMO

Al tempo stesso una battaglia per l'unificazione della classe la si fa se ci si muove in una logica rivoluzionaria. Non la si fa se si continua a nutrire l'illusione di una riforma “antiliberista” del capitalismo.

Siamo realisti. Nessuna delle rivendicazioni che PaP ha avanzato - dall'abolizione del Jobs Act alla cancellazione della Fornero - sarà mai realizzata senza abolire il debito pubblico verso le banche, nazionalizzare le banche, espropriare i capitalisti. E tutto ciò implica la prospettiva di un governo dei lavoratori. Respingere questa prospettiva come utopica rende utopiche tutte quelle rivendicazioni, perché le priva dell'unica prospettiva che possa concretizzarle, ma soprattutto perché alimenta nuove illusioni. Come quelle su Tsipras, con cui PaP si ostina a non rompere persino quando vara leggi antisciopero. Come quelle su Mélenchon, che è venuto a benedire Potere al Popolo, nel momento in cui sventola il tricolore di Francia in contrapposizione alla bandiera rossa.

La verità è che se si respinge la prospettiva anticapitalista ci si arrende ai difensori (“riformisti”) del capitalismo reale. L'unico che passa il convento. Non ne esistono altri.


PER UNA BATTAGLIA INTERNAZIONALISTA, CONTRO OGNI SOVRANISMO

Una battaglia anticapitalista è perciò stesso una battaglia internazionalista. Perché i lavoratori salariati non hanno confini. La loro patria è il mondo, quello che il capitale saccheggia ogni giorno, giocando tanto più oggi sulla tastiera dei nazionalismi e del razzismo. Non si contrasta questa dinamica subordinandosi alla Unione capitalistica degli imperialismi europei, l'UE, per farla diventare “sociale e democratica”, o dicendo che è bene starci dentro ma “disobbedendo”. Né la si contrasta sventolando il vessillo della sovranità italiana contro la “dittatura tedesca” (alla coda degli sciovinismi) o quella di una fantomatica area mediterranea, che mette nello stesso calderone operai e padroni, paesi imperialisti (Italia e Spagna) e dipendenti, nel nome di un improbabile modello progressivo... di capitalismo.

Tuttavia, queste sono le posizioni presenti in PaP (tutte e il loro opposto) con un unico elemento comune: il rigetto di una prospettiva socialista internazionale, e dunque di una federazione socialista europea. L'unica che può lavorare ad unire i salariati contro il capitalismo, a partire dal proprio capitalismo: che è sempre, come un secolo fa, il nemico principale.

Cari compagni e compagne di PaP, ci troveremo come sempre in tante battaglie comuni. Ma la somma di mille battaglie non fa un progetto classista, anticapitalista, internazionalista. Ed è questo progetto quello di cui queste battaglie hanno bisogno.
Il progetto che il Partito Comunista dei Lavoratori continuerà a portare in ogni sede di confronto, in ogni lotta, in ogni movimento. Tenacemente, coerentemente, controcorrente. Lavorando ad unire nello stesso partito tutti coloro che lo condividono. Portandolo al tempo stesso in ogni lotta comune.

Ovunque siano “i nostri”.

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