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Oppressione di genere e colonialismo: l’altra faccia di Piazza Indipendenza

7 Settembre 2017
piazzaIndipendenza


Andando più in profondità rispetto alla storia che le maggiori testate giornalistiche nazionali hanno raccontato, è possibile rintracciare un’altra storia, molto più amara, in cui all’oppressione di genere si intreccia il passato colonialista italiano.

Dal violentissimo sgombero dello stabile di via Curtatone salta infatti subito all’occhio un dato, e cioè il gran numero delle donne presenti tra gli occupanti (con figli a carico) represse con uno schieramento di forze inaudito. Viene immediatamente da chiederci che senso abbiano realmente le periodiche dichiarazioni istituzionali contro la violenza sulle donne: per chi valgono? Solo per le ricche e le bianche, e per i loro figli?

Immediatamente, una lettura utile a non guastare l’immaginario del “poliziotto buono” è stata proposta dalle testate nazionali più importanti, che hanno dato ampio spazio a una fotografia che ritraeva un poliziotto nell’atto di accarezzare una occupante dello stabile.

A guardarla bene, invece, quell’immagine sembra suggerire proprio quello che è veramente successo quella mattina. Rappresenta una situazione di tipica violenza quotidiana, in cui a seguito di una violenza, il partner o il famigliare violento cerca di consolare la vittima, magari per dirle – come spesso accade – che l’ha dovuta picchiare per il suo bene.

Ti ho dovuto colpire in faccia con un idrante per il tuo bene, direbbe in questo caso l’uomo violento.

L’immagine esprime un messaggio di forte paternalismo, in cui il padre-Stato si occupa di rimettere a posto la figlia ribelle-migrante; ma anche il figlio ribelle, il lavoratore: ricordiamoci che sempre a Piazza Indipendenza, nel 2014, furono caricati gli operai delle acciaierie di Terni.

Ma da via Curtatone emerge anche un’evoluzione dello stato della repressione nel nostro paese. Molti hanno parlato di uno sgombero “gestito male”, ma, al contrario, il modo con cui sono state gestite le operazioni è rivelatore del basso grado di democrazia presente nel nostro paese, che, giustificato da una massa totalmente inebetita dal mantra ripetuto da ogni dove secondo cui stiamo vivendo una “invasione di persone (barbari?) che non rispettano le regole”, è disposta a giustificare qualunque sacrificio all’altare della “sicurezza”, anche il rispetto dei più basilari diritti umani, come il diritto ad avere una casa.

La domanda che dobbiamo farci è: sicurezza per chi? Per proteggere chi? Sicurezza per lo Stato borghese, per il mantenimento del suo ordine, a scapito della salute e della stabilità di donne e bambini; sicurezza per i padroni dello stabile, appartenente al fondo immobiliare Omega della società IDea Fimit, a scapito di persone che fuggono da luoghi dove ci sono guerre e dittature.

Lo sgombero di quello stabile non renderà l’Italia un paese più sicuro, e ci dà un’altra volta la conferma che democrazia non farà mai rima con accoglienza, come ancora certe forze politiche di sinistra affermano: proprio in uno Stato che si dice “democratico”, che ha democraticamente approvato la legge Minniti-Orlando è stato possibile lo scempio di Piazza Indipendenza.

Proprio le forze democraticamente elette sono state quelle che hanno dato ulteriore forza al razzismo di massa, dimostrando di essere per l’ennesima volta solo varianti di una stessa reazione che si muove a difesa del capitale e dell’ordine borghese. Le terribili dichiarazioni rilasciate da esponenti del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico (tra cui la stessa sindaca di Roma Virginia Raggi) a favore della sicurezza, senza spendere una sola parola a sostegno dei rifugiati, sono il segnale che non è più possibile giustificare un altro voto che si renda compatibile con le istituzioni esistenti.

Ma questa vicenda rivela soprattutto quanto ci sia bisogno di riprendere in mano la storia del colonialismo italiano, passato che le forze politiche borghesi del nostro paese hanno da sempre rinnegato sin dalla fine della seconda guerra mondiale, derubricandolo alla stregua di un’avventura, quando il Regno d’Italia, nel lontano 1882, fondò la sua prima colonia proprio in Eritrea; pochi anni dopo l’Italia fece della Somalia un protettorato, che trasformò

in colonia nel 1908, per poi invadere con una scusa nel 1935 l’Etiopia per volontà di Mussolini, invasione che fu determinante per la creazione dell’Africa Orientale Italiana.

Tra le altre cose, un reale confronto con le responsabilità politiche dell’Italia in Africa farebbe luce sul particolare rapporto che i coloni italiani intrattenevano lì con le donne indigene: in questo senso, basti ricordare le parole del giornalista Indro Montanelli che partecipò alla guerra d’Etiopia e che, come i suoi compagni, ritenne assolutamente “normale” comprarsi in cambio di 500 lire una sposa, una ragazzina etiope di dodici anni.

Una lettura femminista di classe è necessaria perché è in grado di offrire una lettura classista dei fatti che non perde di vista la loro dimensione internazionale e il loro spessore storico: perciò è impossibile non tenere conto dei due importanti elementi presenti nella vicenda di Piazza Indipendenza, e cioè il dato di genere e quello etnico. Tuttavia, di per sé i due elementi non bastano, non sono determinanti tanto quanto il cosiddetto “terzo elemento”, quello della classe. Perché infatti è proprio di questo particolare soggetto politico che lo Stato borghese in cui viviamo oggi si vuole disfare, e il più in fretta possibile: la donna colonizzata e, soprattutto, povera: l’immigrata proletaria è infatti l’incarnazione di ogni violenza forzatamente rimossa, e si traduce in vittima quasi scandalosa, da colpire e umiliare di nuovo dopo uno stupro – inammissibile – che dura da più di un secolo.




Fonti: http://www.valigiablu.it/scontri-rifugiati-polizia-roma/

Approfondimenti: oltre alla bibliografia classica, si segnala l’audiodocumentario sull’aggressione all’Etiopia Stavo cercando le corna e la coda, ma non le avevano di Roman Herzog, all’interno del progetto di ricerca http://www.campifascisti.it/

SG

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