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La crisi coreana crocevia delle contraddizioni mondiali

La volontà di potenza dell'imperialismo USA contro un regime staliniano grottesco

7 Settembre 2017
pyongyang


La crisi coreana misura il nuovo quadro delle contraddizioni mondiali.
Il regime dinastico nordcoreano di Kim Jong-un si regge su due pilastri: il controllo sociale sul piano interno - attraverso una autentica irregimentazione di massa - e la forza militare sul piano internazionale.
A differenza della Cina e del Vietnam, che hanno da tempo restaurato il capitalismo, la Corea del Nord conserva ancora i vecchi rapporti di proprietà non capitalistici. Il regime ha certo introdotto in anni recenti diverse riforme liberaleggianti nell'economia urbana, ha ampliato gli spazi di mercato, ha accompagnato l'emersione di nuovi settori di imprenditoria privata. Tuttavia siamo ancora ben lontani da una “via cinese” (restaurazione capitalistica dall'alto), oggi approdata ad un nuovo imperialismo. L'economia burocraticamente pianificata resta tuttora la base d'appoggio della casta regnante nordcoreana e della sua piramide assolutista.

Si tratta di un regime staliniano con caratteri insieme feroci e grotteschi: un regime sopravvissuto allo sfaldamento progressivo, nella stessa Asia, del blocco staliniano internazionale, e anche per questo sospinto ad affidare la propria salvezza allo straordinario rafforzamento della deterrenza militare. Non si tratta della follia individuale di un autocrate, ma della estrema autodifesa di un regime e, indirettamente, delle basi materiali del suo potere. L'ostentazione della risorsa nucleare è infatti il principale scudo protettivo della Corea del Nord a fronte della minaccia imperialista degli USA.


DONALD TRUMP: BONAPARTISMO E MILITARISMO IMPERIALISTA

Il regime nordcoreano mette a dura prova il nuovo corso di Donald Trump, scontrandosi frontalmente con le sue ambizioni imperialiste.
Contro ogni rappresentazione del trumpismo come inedito “isolazionismo”, la nuova presidenza USA cerca il rilancio della politica di potenza americana. La fine della ritirata americana nel mondo, la riaffermazione del primato internazionale degli Stati Uniti, la ricostruzione dei vecchi legami con gli alleati fondamentali degli USA (Israele e Arabia Saudita in Medio Oriente, Giappone e Corea del Sud in Asia) quale base d'appoggio del rilancio americano, sono tutti ingredienti del nuovo corso. "America first" non significa solamente una postura protezionista in campo economico, ma anche la rivendicazione di una politica di potenza su scala mondiale. Questa politica ha un avversario strategico: la Cina. E dispone di uno strumento fondamentale: la forza militare soverchiante degli Stati Uniti e la rivendicazione ostentata del «diritto ad usarla, a difesa degli interessi superiori della nazione». L'azione di bombardamento sugli aeroporti militari di Damasco, il rafforzamento della presenza militare americana in Afghanistan, l'escalation di minacce contro la Corea, sono l'avvio della svolta USA.

La stessa dinamica interna della presidenza Trump spinge, da un altro versante, in questa direzione.
La nuova presidenza non ha ancora trovato un punto di equilibrio con la costituzione materiale della Stato americano. Ampi settori della magistratura, dei servizi di sicurezza, del corpo diplomatico, del gotha finanziario, della grande stampa di Wall Street, mantengono una linea di scontro con la nuova amministrazione. A loro volta, lo stato di mobilitazione diffusa contro Trump di ampi strati giovanili, del movimento delle donne, del movimento antirazzista, entro una dinamica di polarizzazione politica che l'America non conosceva dai tempi del Vietnam, approfondiscono le contraddizioni interne al blocco dominante.

In questo quadro Donald Trump è sospinto ad accentuare i tratti bonapartisti del proprio governo, col classico taglio delle ali. Da un lato si libera di Bannon, l'estrema destra ideologica e suprematista, pietra dello scandalo dello staff trumpiano; dall'altro allontana gli esponenti liberal del Partito Repubblicano, subendo anche per questo un ulteriore scollamento di quell'ala dei poteri forti che inizialmente avevano fatto un'apertura di credito al nuovo presidente. Per questa via, elevatosi in qualche modo al di sopra delle contraddizioni del proprio blocco politico e sociale, Trump è costretto ad appoggiarsi su due strumenti diversi e complementari: per un verso la relazione populistica diretta con l'opinione pubblica della propria base (la politica dei tweet quotidiani), per altro verso sul potere militare dei generali del Pentagono. La presenza sempre più dominante nell'apparato di governo di personalità di estrazione militare è il riflesso di questa dinamica.
A loro volta i militari riconducono le esuberanze populiste del Presidente entro il solco di una politica di potenza “controllata”, nuovamente determinata ma non avventurista. A garanzia dell'”interesse generale” dell'imperialismo USA nel mondo.


GLI USA DI FRONTE A UN DIFFICILE BIVIO

In questo quadro complesso si pone (e si spiega) la dinamica degli avvenimenti in corso.
Donald Trump, e forse i suoi consiglieri generali, pensavano che l'invio della flotta americana verso i mari di Corea e l'intimidazione minacciosa dell'uso militare della forza («fuoco e furia come il mondo non ha mai visto»), avrebbero indotto il regime nordcoreano ad arretrare (a partire dalla rinuncia agli esperimenti missilistici), consentendo al Presidente USA senza colpo ferire una vittoria politica e d'immagine clamorosa, sul fronte interno e sul fronte internazionale. Ma i calcoli si sono rivelati sbagliati. Il regime nordcoreano non solo non abbozza, ma rilancia l'esibizione disinvolta della propria capacità nucleare. Più precisamente la propria capacità di replica distruttiva sugli alleati regionali degli USA, il Giappone e la Corea del Sud.

Cosa vuole il regime nordcoreano? Non certo la guerra, che lo vedrebbe distrutto. Ma l'accettazione internazionale della Nord Corea quale potenza nucleare. La presa d'atto internazionale di questa realtà. La rinuncia ad ogni destabilizzazione del regime. Questo è il suo obiettivo centrale.

L'amministrazione Trump si trova ora di fronte a un bivio. Assecondare le richieste di riconoscimento della Corea quale potenza atomica significherebbe confessare la propria impotenza politica agli occhi del mondo, in particolare della Cina; rivelarsi incapace di tutelare i propri alleati asiatici, innanzitutto il Giappone; e subire una sconfitta pesante anche sul piano della credibilità interna. Ma muovere un attacco militare preventivo significherebbe imboccare una via senza ritorno, non a caso sconsigliata dagli stessi esperti militari. Una guerra in Corea sarebbe difficilmente circoscrivibile, esporrebbe gli alleati degli USA (a partire dalla Corea del Sud) a rappresaglie devastanti, rischierebbe di trascinare nello scontro la stessa Cina. Da qui l'apparente vicolo cieco.

Non potendo né attaccare né arretrare, gli USA rilanciano in sede ONU la via delle sanzioni. Ma è un ricorso già formalmente varato il 5 agosto, senza effetto alcuno. La successiva minaccia di estendere le sanzioni a tutti i paesi che intrattengono rapporti con la Corea del Nord è stata ridicolizzata e respinta innanzitutto dalla Russia e dalla Cina, che sarebbero formalmente i primi danneggiati dell'operazione. La minaccia è oltretutto totalmente irrealistica: gli USA dovrebbero bloccare il proprio interscambio con la Cina, che detiene gran parte del debito americano, con un risvolto obiettivo autolesionista.


LA CINA IMPERIALISTA E LE SUE RELAZIONI CON PYONGYANG

Resta allora la forte pressione sulla Cina per il blocco dei rifornimenti petroliferi al regime nordcoreano. È una richiesta comprensibile. La Cina controlla il 90% del rifornimento energetico della Corea. Un blocco petrolifero cinese metterebbe realmente in ginocchio Pyongyang. Ma qui entra il gioco l'interesse strategico della Cina, e la complessità della sua relazione con la Corea del Nord.

La Corea del Nord è sicuramente nell'orbita di influenza cinese, e tuttavia Pechino detesta il regime di Kim Jong-un, su cui non esercita più da tempo un controllo politico diretto. Il gioco spericolato della famiglia Kim svolge un ruolo di potenziale destabilizzazione, obiettivamente nociva per gli interessi cinesi in Asia: la linea di progressiva espansione dell'influenza cinese in Asia e nel mondo (sviluppo enorme degli investimenti esteri, propria banca internazionale, conquista di terre fertili e materie prime, via della seta e relative infrastrutture...) non può essere messa a rischio dalle intemperanze incontrollabili del dittatore nordcoreano, e da guerre i premature. Per questo la Cina ha più volte provato a innescare un cambio politico interno al regime, con la defenestrazione della famiglia regnante a favore di propri interlocutori affidabili. Ma i tentativi golpisti di impronta cinese sono stati tutti sventati dagli apparati del regime, con l'annientamento dei loro promotori. Le capacità politiche di influenza cinese sul regime si sono dunque pesantemente ridotte.

Un secondo fattore, di primaria importanza, spinge la Cina alla prudenza verso Pyogyang. Un conto sarebbe un ricambio politico interno al regime (sinora fallito), altra cosa il suo crollo. La Cina non ha alcun interesse al crollo del regime nordcoreano perché questo significherebbe una riunificazione della Corea sotto il controllo USA. Un simile esito sarebbe disastroso per la Cina: cambierebbe i rapporti di forza in Asia, a vantaggio degli USA, proprio nel momento del massimo contenzioso tra la Cina e gli alleati degli USA attorno al controllo del Mar cinese meridionale e agli equilibri sul Pacifico. Per la stessa ragione una simile ipotesi è frontalmente osteggiata dalla Russia, oggi in blocco con la Cina (anche se interessata ad allargare una presenza propria in Asia, persino in termini di relazioni dirette con Giappone e Corea del Sud).

Questo contesto generale ha una duplice risultante. Da un lato rende la Cina indisponibile a estendere le sanzioni alla Corea del Nord per favorirne il crollo; dall'altro rende evidente che una guerra americana per il rovesciamento del regime nordcoreano potrebbe trascinare la Cina (e la Russia) nella guerra con gli USA, con effetti incalcolabili su scala mondiale.

Da qui la paralisi del braccio di ferro in corso e il suo primo effetto immediato: la corsa agli armamenti del Giappone e della stessa Corea del Sud. Insicuri dell'ombrello protettivo americano, incerti sulle scelte dell'alleato USA, e già da tempo minacciati dall'espansione cinese in Asia, Tokyo e Seul provvedono a fortificare i propri apparati militari. In una logica di deterrenza, ma anche all'occorrenza di possibile impiego. Dentro una dinamica di allargamento dei bilanci militari che investe ormai tutti i continenti, inclusa ultimamente l'Europa e persino la Germania.


CONTRO LE MINACCE DI GUERRA DELL'IMPERIALISMO

Come marxisti rivoluzionari rivendichiamo l'opposizione a ogni ipotesi di guerra imperialista in Corea.

Certo denunciamo la natura totalitaria del regime nordcoreano, esaltato da tante organizzazioni staliniste nel nome di un improbabile socialismo. Ma con altrettanta chiarezza diciamo che il vero scandalo non è il diritto di autodifesa della Corea del Nord dalla minaccia americana, ma la pretesa della principale potenza del mondo di decidere chi ha diritto e chi no alla propria autodifesa, la sua recita arrogante di poliziotto del mondo nel nome della democrazia. È questa la matrice del lungo ciclo di guerre imperialiste in Medio Oriente, col suo carico di orrori e distruzioni. È questa la matrice delle minacce imperialiste all'Iran e più recentemente al Venezuela. Abbiamo difeso e difendiamo ogni paese dipendente aggredito o minacciato dall'imperialismo, indipendentemente dal suo regime interno. Difenderemmo la Corea del Nord in una eventuale guerra con gli USA, tanto più in presenza in questo caso di un paese ancora segnato da rapporti di proprietà non capitalisti, nonostante e contro il regime staliniano che lo opprime. Così come su scala infinitamente più grande i marxisti rivoluzionari difesero l'URSS e i suoi rapporti di proprietà contro la Germania nazista, nonostante e contro il regime di Stalin.

Se invece la guerra di Corea si trasformasse un domani in una guerra aperta tra blocchi imperialisti, vecchi e nuovi, la posizione dei rivoluzionari dovrebbe essere quella di un disfattismo bilaterale. I lavoratori americani ed europei non hanno alcun interesse a schierarsi al fianco dell'imperialismo USA e della sua arrogante volontà di potenza. Come i lavoratori russi e cinesi non hanno alcun interesse a parteggiare per le nuove ambizioni dei propri giovani imperialismi, nel gioco di spartizione delle zone di influenza in Asia, Medio Oriente ed Africa. Su entrambi i fronti, la parola d'ordine “il nemico è in casa nostra” sarebbe l'unica vera parola d'ordine internazionalista e rivoluzionaria.

Per questa stessa ragione, sul “nostro fronte”, la mobilitazione contro le minacce di guerra dell'imperialismo USA è in ogni caso già oggi un dovere imprescindibile per tutte le organizzazioni del movimento operaio e antimperialista.

Marco Ferrando

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