Teoria

Cent'anni fa, Torino come Pietrogrado

22 Agosto 2017
motitorino


Nei primi decenni dello scorso secolo la città della Mole Antonelliana conosceva un notevole sviluppo industriale, grazie al vertiginoso sviluppo della Fiat e delle aziende del suo indotto, con un incremento non da poco della classe operaia nella città. Tra il proletariato torinese sin dagli ultimi decenni del XIX secolo avevano avuto grande presa le idee socialiste, e non pochi erano i circoli operai e le sezioni del Psi, che all'epoca contava diversi deputati per Torino e provincia.

Contro l'ingresso dell'Italia in guerra nel maggio del 1915 tutta la classe operaia proclamò uno sciopero generale che mobilitò in tutta la città decine di migliaia di maestranze della Fiat e di altre industrie. Il movimento interventista, che nel resto della penisola godeva di grande appoggio presso la borghesia, era lì invece ridotto al lumicino. La borghesia torinese, di tradizioni liberali, era politicamente allineata sulle posizioni neutraliste del piemontese Giovanni Giolitti, che fino all'anno precedente aveva rivestito la carica di presidente del consiglio dei ministri del Regno, canalizzando le velleità imperialistiche della borghesia italiana nella conquista della Libia, all'epoca possedimento del "vecchio malato d'Europa", l'Impero Ottomano.

Il primo conflitto mondiale vide anche a Torino e nelle fabbriche della cintura torinese l'impiego delle donne nelle industrie per sostituire gli uomini che in gran numero venivano arruolati per il fronte, per essere inviati a morire come carne da macello nelle trincee combattendo agli ordini in molti casi di studentelli dell'alta borghesia che rivestivano la carica di ufficiali.
L'ingresso nelle fabbriche di migliaia di donne contribuì però ad una crescita della coscienza di classe in tantissime proletarie. A favorire ciò, negli anni precedenti il conflitto la locale Camera del lavoro era stata guidata da una donna, Maria Giudice, sodale della prima segretaria della Terza Internazionale Angelica Balabanoff e fondatrice dell'Unione donne italiane, che durante gli anni del conflitto diresse il giornale socialista "Il grido del Popolo", nelle cui colonne si potevano spesso leggere i contributi di un giovane studente sardo di nome Antonio Gramsci. Il mese di agosto del 1917 fu di cardinale importanza per la crescita politica del proletariato torinese. Nelle settimane precedenti, nonostante il boicottaggio della stampa borghese e la difficoltà nei collegamenti erano cominciate ad arrivare in Italia notizie della rivoluzione che nel febbraio di quell'anno aveva deposto in Russia lo zar Nicola II ed all'interno della quale i bolscevichi prendevano sempre maggior piede nella classe operaia di Pietrogrado e di tutto il paese. Ai primi di agosto l'arrivo a Torino di una delegazione dei Soviet, anche se di tendenza menscevica, infiammò gli animi dei lavoratori. Nonostante il divieto di assembramento della locale prefettura, 40000 operai accorsero alla Camera del Lavoro, dov'erano ospitati gli emissari russi, al grido di "Viva la rivoluzione russa! Viva Lenin!".

Già da alcuni giorni però il pane cominciava a scarseggiare, e molti forni chiudevano per giorni interi. La mattina del 22 cominciò la rivolta con tantissime donne e tantissimi giovani proletari che assaltarono i tram e cominciarono a costruire con questi le prime barricate. Nel pomeriggio poi gli operai e soprattutto le operaie uscirono spontaneamente dalle officine e dai reparti, cominciando ad assaltare panifici e magazzini di generi alimentari in tutta la città.

Il giorno seguente i quartieri della periferia come Vanchiglia, Borgo San Paolo (che durante la Resistenza fu la principale base operativa dei GAP di Dante Di Nanni) e la Barriera di Milano passarono sotto il controllo degli operai armati, i quali non si erano fatti abbindolare dalle promesse dal tono paternalistico del padronato ed avevano proclamato autonomamente dalle direzioni sindacali e socialista lo sciopero generale, che nell'arco di poche ore si era esteso anche agli altri centri industriali vicini, come Pinerolo, Orbassano, Rivoli e Collegno. Nel quartiere di Borgo San Paolo vennero assaltate dalla folla la chiesa ed un monastero, anticipando di una ventina d'anni una prassi estremamente diffusa nelle campagne insorte contro i franchisti dell'Aragona e della Catalogna. Nella giornata del 23 si ebbero però anche i primi morti della rivolta, e svariate caserme vennero prese d'assalto. Il 24 il proletariato torinese era il vero padrone della città, con l'esercito asserragliato solo nei quartieri borghesi del centro. Cominciarono a circolare anche dei manifestini scritti da dirigenti locali del Psi d'area massimalista che incitavano gli operai a non abbandonare la lotta, pur non parlando minimamente d'insurrezione o presa del potere, consegna all'ordine del giorno in quelle settimane tra i bolscevichi russi (ad eccezione del trio Muranov - Kamenev - Stalin).

A livello nazionale la stampa non fece trapelare alcuna notizia, e non tanto diverso fu l'atteggiamento della direzione nazionale del Psi, la quale non diede alcuna indicazione ai quadri socialisti, nè a Torino nè nel resto del paese. Il principale leader del socialismo torinese, il deputato Oddino Morgari, fece precipitosamente ritorno in città, recandosi non dagli operai, bensì a colloquio con il prefetto per studiare insieme come far cessare l'insurrezione. Non di diverso avviso furono gli altri deputati socialisti locali. Nel frattempo in tutta la città infuriava la battaglia tra operai e corpi del Regio Esercito. In alcuni casi, dinnanzi alla tenace resistenza delle donne proletarie, battaglioni interi batterono in ritirata e molti soldati abbandonarono spontaneamente le armi sul campo. Anni dopo Gramsci, tornando su tali episodi, ebbe a scrivere : «Invano avevamo sperato nell'appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi».
Nei giorni seguenti la rivolta ripiegò su posizioni difensive nei quartieri operai, e la locale direzione socialista invitò i lavoratori, nonostante in quei giorni vi fossero stati in quei giorni decine di caduti (si parla di oltre 40 morti e 250 feriti tra il proletariato torinese), a riprendere il lavoro entro l'inizio della settimana seguente. Oltre che del tradimento da parte dei propri dirigenti, i socialisti torinesi furono vittime anche della repressione. Più di 800 furono gli arresti nelle settimane che seguirono la rivolta di Agosto, e colpirono semplici militanti, quadri di partito e persino alcuni dirigenti, nonostante la dichiarata linea conciliatrice e collaborazionista che la direzione socialista cercò di imporre. Sul finire del decennio successivo la sezione femminile del Partito Comunista d'Italia in esilio a Parigi pubblicò un opuscolo destinato alle militanti che riguardava proprio l'insurrezione di quei giorni ed il ruolo che vi ebbero migliaia di proletarie. Nonostante le proporzioni della disfatta, ciò che non venne minimamente intaccata in quei giorni fu la coscienza di classe del proletariato torinese, non a caso tra le varie città d'Italia, una di quelle dove il Fascismo conobbe minore successo in termini di radicamento fu proprio Torino.

Vincenzo Cimmino

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