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Perché il reddito di cittadinanza non libera le donne

Una falsa rivendicazione per il movimento delle donne

20 Giugno 2017
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L’8 marzo in quasi cinquanta Paesi si è tenuto il primo sciopero globale delle donne, un percorso transnazionale nato principalmente sulla spinta del movimento argentino Ni Una Menos - dove il troskismo ha avuto un ruolo importante – e sull’onda dello sciopero del 4 ottobre 2016 delle donne polacche in difesa del diritto all’aborto.

In Italia il percorso dell’8 marzo è stato declinato territorialmente e in molte città italiane sono stati organizzati cortei, presidi e iniziative pubbliche. Le manifestazioni cittadine sono state molto partecipate anche se lo sciopero “produttivo e riproduttivo” ha assunto una dimensione più simbolica che reale. Vanno comunque segnalate alcune realtà di controtendenza: ad esempio FP-CGIL, SIAL Cobas e CUB hanno avuto un ruolo chiave nella mobilitazione delle lavoratrici del comune di Milano, inoltre in alcune fabbriche come l’Electrolux di Susegana vi è stata un’adesione allo sciopero che ha raggiunto l’80%.

Il movimento Non una di meno si configura attualmente come un’esperienza eterogenea, plurale e indiscutibilmente rappresenta un terreno importante in cui intervenire per far emergere quelle posizioni classiste e rivoluzionarie che abbiano la forza di far inquadrare la battaglia contro il patriarcato e il tema della liberazione delle donne e di tutte le minoranze oppresse nell’orizzonte del conflitto fra capitale e lavoro. Una battaglia che non può essere o solo anticapitalista o esclusivamente antipatriarcale, ma necessariamente entrambe: anticapitalista e antipatriarcale.

Dopo le prime tappe romane dell’8 ottobre e del 27 novembre 2016, il 4 e 5 febbraio 2017 a Bologna si è tenuto un incontro nazionale di due giorni del movimento. Anche questo è stato un evento molto partecipato, nel quale sono intervenute quasi duemila attiviste, divisesi in otto tavoli tematici per portare avanti la scrittura del Piano femminista contro la violenza. In questo percorso sono state fatte proprie dal movimento alcune rivendicazioni minime ma certamente importanti quali la battaglia per i diritti civili ai migranti, per la chiusura dei CIE, per lo Ius soli, nonché la battaglia per il pieno funzionamento della legge 194 (interruzione volontaria di gravidanza) e per l’abolizione dell’obiezione di coscienza che rappresenta una questione centrale per la sessualità e la vita di tutte le donne. Ad oggi dunque questa nuova ondata femminista è riuscita a smarcarsi da istanze e problematiche portate avanti dal femminismo borghese come ad esempio la battaglia per la rappresentanza femminile nelle istituzioni e le quote rosa, nonché quella dal sapore moralista come quella contro la "mercificazione delle donne in politica" che sono state il cavallo di battaglia di "Se non ora quando?".

Ma dal percorso di Non una di meno sono emerse anche delle criticità che possono minare lo sviluppo futuro del movimento e portarlo a arenarsi in una involuzione istituzionale.
Dalla lettura del report uscito dal tavolo “Legislativo e giuridico” e soprattutto dalla rivendicazione centrale del reddito di cittadinanza assunta dal tavolo “Lavoro e welfare”, emerge una visione pericolosamente neutra e poco critica dello Stato borghese, nonché uno sguardo ambiguo nei confronti dell’Unione Europea; ciò si evince ad esempio dal richiamo della necessità di ottenere la piena attuazione dei principi della Convenzione di Istanbul del 2011 sulla “prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” o dalla richiesta che le aziende facciano “corsi di formazione” sulle tematiche della violenza di genere.
Come si può considerare un promotore della liberazione delle donne quello stesso Stato che dello sfruttamento e dell’oppressione è il garante? E come non si può riconoscere che la liberazione delle donne si inscrive in un processo di messa in discussione e necessaria trasformazione dei rapporti di forza vigenti?

Questa incomprensione del ruolo antagonista dello Stato borghese e del sistema economico emerge chiaramente dalla più importante delle rivendicazioni assunte attualmente dal movimento, ossia il reddito di cittadinanza (o di autodeterminazione come viene definito).
Quella per il reddito rappresenta una rivendicazione di retroguardia: già in uso in molti paesi a capitalismo avanzato per prevenire il calo dei consumi causato dalla crisi economica, esso non ha mai rappresentato il frutto di una conquista del movimento operaio poiché non mette minimamente in discussione i privilegi del padronato e anzi, in una certa misura li istituzionalizza ulteriormente, poiché è un’istanza che disconosce il ruolo della lotta di classe come motore della Storia e per questo non riconosce la centralità del lavoro come terreno in cui si produce la contraddizione fra capitale e lavoro, e dunque quelle condizioni necessarie per la rottura rivoluzionaria con il sistema capitalista. È inoltre una istanza che nasce da analisi pseudoscientifiche che non riconoscono la proprietà privata come base delle diseguaglianze sociali e lo sfruttamento come estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. È quindi una forma di sussidio non di emancipazione.
Inoltre è uno strumento particolarmente discutibile, tanto in un’ottica marxista quanto femminista, proprio perché rimuove la centralità del lavoro come orizzonte di autodeterminazione delle donne nei confronti della famiglia e la conseguente partecipazione attiva alle dinamiche della lotta di classe come mezzo di conquista di un proprio ruolo politico nella società.

È la stessa esperienza della rivoluzione bolscevica a ricordarcelo. Negli anni immediatamente successivi all’Ottobre vennero infatti messi in moto due processi intimamente connessi: da un lato vennero introdotte in massa le donne all’interno del lavoro produttivo con tutte le conseguenze economiche e politiche che ne conseguivano (diritto di voto e di elezione all’interno dei soviet, autonomia economica e acquisizione della piena cittadinanza); dall’altro lato vennero attuati i primi provvedimenti volti alla liberazione sessuale delle donne, ossia quelle istanze che si ponevano l’obiettivo di svincolarle dal destino biologico e sociale a cui il patriarcato le aveva relegate e di cui la morale borghese e la religione erano i moderni portavoce.
Così la Repubblica dei Soviet fra il 1918 e il 1922 legalizzò l’aborto e il divorzio, approvò le unioni civili, abolì la patria potestas e le differenze fra figli “legittimi” e “illegittimi”; dette avvio anche a una prima fase di socializzazione del lavoro di cura con l’apertura di mense pubbliche, di lavanderie pubbliche e di asili per l’infanzia, affinché fossero dei lavoratori salariati a occuparsi di quei lavori che per secoli le donne avevano dovuto svolgere gratuitamente all’interno della famiglia e in condizioni di subalternità.

Il reddito di cittadinanza invece non contempla tutto ciò; pone gli inoccupati alle dipendenze dello Stato e alla sua disponibilità o meno di elargire denaro (siamo in tempi di crisi economica, quindi o reddito o servizi) e non dunque indipendenti e liberati dalla “schiavitù del lavoro” come sostengono i vari settori movimentisti; tutto questo rischia di rendere ancora più subalterne le donne non solo nei confronti della famiglia, dove la violenta crisi economica le sta rigettando e vincolando al lavoro di cura, ma anche nei confronti dello Stato borghese, lo stesso stato che garantisce i medici obiettori, che fa tagli alla sanità, che riconosce la sacralità di un certo tipo di famiglia e un certo modo di essere genitore a discapito di tutti gli altri, che fa regalie al padronato e alle banche, che garantisce privilegi fiscali alla Chiesa cattolica e l’insegnamento confessionale nella scuola pubblica. Dunque, il reddito di cittadinanza rischia di divenire a tutti gli effetti un salario domestico per casalinghe.

Ma il movimento Non Una di Meno ha ancora il potenziale e la disponibilità di energie per intraprendere un’altra strada e un’altra battaglia per la liberazione delle donne e di tutte le minoranze oppresse, ossia quella per creare nuove condizioni materiali e nuovi rapporti di forza che permettano alle donne di lavorare per se stesse e essere autonome (così che se costruiranno una famiglia, lo faranno da donne libere e per scelta, non per necessità o per mancanza di orizzonti) e a questa battaglia va aggiunta quella per i diritti delle lavoratrici per poter garantir loro gli strumenti di autodeterminazione dentro gli stessi luoghi di lavoro, senza che rischino di perdere il posto e senza che debbano accettare di subire pratiche sessiste (oggi come ieri molto frequenti). Il movimento deve dunque fare propria la battaglia per la redistribuzione del lavoro esistente fra tutti e tutte e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga, l’abolizione del Jobs Act e di tutte le leggi di precarietà, il reintegro dell’articolo 18 esteso a tutti i lavoratori dipendenti, l’abolizione dell’obiezione di coscienza in tutte le strutture sanitarie pubbliche, l’abolizione della riforma della Buona scuola e dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, la separazione fra Stato e Chiesa e dunque l’abolizione del Concordato.

Chiara Mazzanti

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