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Tutto ciò che tocca il capitalismo diventa sfruttamento: riflessioni sulla prostituzione

12 Giugno 2017
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LA POLEMICA E LO STIGMA: PREMESSE

Intorno al tema della prostituzione si è ravvivata con accenti molto forti la polemica tra “legalizzatrici” e “abolizioniste”, non ci interessa entrare nella contrapposizione, ci interessa invece approfondire un paio di punti senza pretese sulla prostituzione, ma soprattutto ci interessa sottolineare come la mancanza di una visione anticapitalista e anticlassista su un tema di questo genere possa in realtà distogliere il merito della discussione per portarlo su un binario sterile.

In questa come in molte altre tematiche, il dibattito pubblico è infatti spesso segnato da scontri o scelte quasi sempre binarie, in un aut aut che spesso fa comodo alla classe dominante per dividere il fronte della protesta in tifoserie da stadio, lasciare sepolte alcune considerazioni scomode, e in ultima analisi condurre tutto in un vicolo cieco che non desta preoccupazioni.


ALCUNI NUMERI

Il fenomeno della prostituzione è estremamente complesso, dato che comprende al suo interno la prostituzione in strada, in casa, i servizi di escort, la prostituzione minorile, quella maschile ecc. È penosamente difficile reperire dati certi e non filtrati dalla idea preconcetta che si ha del fenomeno. Il Codacons ha stimato un fatturato di settore di circa 2,86 miliardi di euro. Nel 2007 in Italia erano attive quasi 70mila prostitute con 2 milioni e mezzo di clienti. Nel 2014 si stima un giro d’affari di 3,6 miliardi di euro all’anno, con circa 90.000 prostitute e 3-9 milioni di clienti.

Nel periodo 2007-2014 il fatturato della prostituzione è dunque cresciuto del 25,8 per cento. I/Le sex workers sono 20.000 in più e i clienti sono cresciuti del 20 per cento. Il 90% delle prostitute in Italia è straniero, con un’impennata negli arrivi dalle nuove nazioni europee, Romania e Bulgaria in testa, oltre a Nigeria, Ucraina, Bielorussia ecc.

Già questo dato geografico la dice lunga sulla percentuale di “sex worker volontarie”. Per non farsi mancare nulla, l’Italia detiene il primato europeo di donne ridotte in schiavitù, seguita dalla Spagna.

Quindi, la sex worker tipo non è una donna (o un uomo) che ha scelto liberamente di intraprendere questo “mestiere”, ma nella stragrande maggioranza dei casi qualcun* che vi è stato costretto con la violenza o dalle condizioni economiche, spesso spostandosi dal paese di origine, spesso sfruttate da trafficanti senza scrupoli. Molte vittime della tratta contraggono dei “debiti” con i trafficanti di diverse decine di migliaia di euro, che finiranno per ripagare sulla strada.


UN LAVORO COME UN ALTRO?

È una premessa idiotamente ovvia, ma necessaria per non essere tacciati di “puttanofobia”: chi scrive non considera negativamente chi decide liberamente di fare la prostituta, né ha particolari tare sessuofobiche e/o paternalistiche. La scelta di prostituirsi non è un titolo di demerito, ma neanche come un titolo di merito, o addirittura un’espressione di “autodeterminazione”.

Nel nostro piccolo spazio vige il massimo rispetto della libertà personale e del diritto di tutte e tutti di autodeterminarsi. Il problema è che al momento non ci troviamo nel vuoto pneumatico in cui ogni individuo ha concretamente a disposizione ogni scelta virtualmente pensabile. Prendere come esempio della categoria dei/delle sex worker quella piccolissima percentuale che ha fatto questa scelta in maniera del tutto priva di condizionamenti economici, sociali e psicologici è come andare a scovare quella minoranza di operai entusiasti di stare in fonderia. Ci saranno, ma non sono la regola. E in ogni caso neppure loro dovrebbero essere sfruttati. Nessuna scelta avviene al di fuori dal contesto sociale in cui ci troviamo. Le scelte individuali non esistono, ogni scelta ha ripercussioni nella rete di relazioni di cui è composta la società e soprattutto sui rapporti di forza che la regolano.

Di fatto, in questo sistema capitalistico, prostituirsi è diventare un corpo di servizio al soldo del patriarcato e del capitale. La libertà di scelta di un individuo è data dalla dinamica dello scontro di classe nel sistema sociale in cui opera. Banalmente la classe borghese, capitalista e sfruttatrice ha un sacco di libertà personale in più rispetto ai salariati, quindi no, generalizzare non è possibile. È intellettualmente disonesto e non fa i conti con la realtà delle cose, quindi è, in ultima analisi, inutile.

Il grado di libertà di scelta di un individuo è dato dalla sua appartenenza di classe. E i/le sex worker non hanno il coltello dalla parte del manico nel sistema vigente. Le statistiche ci dicono che per la maggioranza sono donne, immigrate, violentate e sottoposte a ogni genere di vessazione e sfruttamento, persone a cui il sistema capitalista non ha lasciato molta scelta. Oppure persone che il sistema capitalista ha incastrato in vite vissute in condizioni più o meno disperate. E non vi è una grande differenza tra essere costrette a prostituirsi sotto la minaccia della violenza fisica da parte di un’organizzazione criminale e prostituirsi per mantenere se stessi o una famiglia un pelo al di sopra della sussistenza. Chi propaganda l’idea che in realtà abbiamo piena libertà di scelta molto spesso appartiene alla classe degli sfruttatori e non degli sfruttati.

Per rendersi conto di questo basta informarsi sul famigerato modello tedesco, che tratteremo più avanti, in cui il 65% delle prostitute è comunque straniero, attirato nella professione per sfuggire alla povertà del paese di origine, o semplicemente per dare un futuro alla famiglia, o per studiare.

Che c’è di diverso dal fare la badante? Fare la prostituta è veramente un lavoro come un altro? No. In un lavoro, per quanto sfruttato e sottopagato, si vende la propria forza lavoro, il proprio tempo, non il proprio corpo. Legalizzare la prostituzione significa anche sancire per legge che il corpo, principalmente quello femminile, possa essere considerato un servizio per il piacere maschile, dato che anche la sfera sessuale non è svincolata dal contesto sociale in cui ci muoviamo, e neppure dai rapporti economici di produzione.

Ci sono voluti quarant’anni di battaglie femministe per fare del sesso e della libertà sessuale un terreno di scontro politico da cui cacciare via religione, stato e capitale. Rivendicare che vendere i servizi di un braccio o di una vagina sia la stessa cosa, significa farci ritornare in pieno medioevo. Significa fare finta di operare in un contesto sociale in cui ogni condizionamento sia venuto meno, e siamo lontanissimi da questa situazione. Significa fare il gioco del patriarcato e del padrone. Ignorare i rapporti di forza tra le classi è il più grande regalo che si può fare a capitalismo e patriarcato.

Allo stesso modo infatti, procedendo per assurdo, uno stato potrebbe legiferare che la paternità è un diritto e che quindi è perfettamente legale che ci siano donne che partoriscono in conto terzi (e ci sono, vedi la GPA, anche queste molto spesso indotte a farlo per ragioni economiche).

La libertà di mercificarsi non è autodeterminazione, non certo in questo sistema economico.

Sotto il capitalismo le donne sono e saranno sempre e solo corpi di servizio, come purtroppo avviene anche agli uomini. Ma non a tutti gli uomini e tutte le donne, ma alle donne e agli uomini proletari, a chi appartiene alla classe degli sfruttati.

Il trend a livello mondiale non va verso una tutela delle donne e dei loro diritti, ma sta scivolando sempre più verso una mercificazione a tutto tondo della vita dei proletari. Siamo noi civilissimi stati occidentali a importare le vergognose condizioni di sfruttamento dei lavoratori del terzo mondo e ad applicarle anche qui (Jobs Act? Articolo 18? Caporalato? Vi dicono niente?). La globalizzazione non ha esportato diritti, ha collettivizzato lo sfruttamento. È notizia recente che gli americani potranno acquistare latte materno dalle donne cambogiane, che facciamo, le chiamiamo milk workers?

Siamo ritornati a ciò contro cui si sono sempre battute le femministe: la libertà dei corpi femminili da pretese sessuali e riproduttive, dall’essere considerate merce da acquistare dietro compenso (prostituzione) o dietro matrimonio (riproduzione) pena lo stigma sociale.

Insomma, il capitale compra la fatica delle raccoglitrici di pomodori così come compra la vagina e i servizi della prostituta, ma comparare le due “prestazioni” significa legalizzare lo sfruttamento dell’una insieme allo sfruttamento dell’altra: se lo sfruttamento della lavoratrice è legale allora deve esserlo anche quello della prostituta! È uno sporchissimo gioco al ribasso, in cui non si mette in discussione il sistema che produce la prostituta e la raccoglitrice di pomodori, ma si accetta di fatto come inalterabile il contesto capitalista in cui si mercifica il corpo femminile. Siccome siamo tutti sfruttati sul lavoro, legalizziamo anche questo sfruttamento, facendo un enorme regalo non alle sex workers volontarie, che continuano ad essere discriminate e non protette come insegna il modello tedesco, ma a tutti i soggetti intermedi approfittano della compravendita.

Questo espone le donne a dinamiche capitaliste del tutto disumane e incontrollabili, come i famigerati bordelli “all you can fuck”, in cui pagando una tariffa fissa di 50-100 euro bevande incluse si può fare ciò che si vuole dall’apertura alla chiusura del locale. E tralasciamo volutamente le storie dell’orrore che pure si trovano copiose sui nuovi bordelli legali.

Sappiamo bene che fine stanno facendo i diritti dei lavoratori in Italia e nel mondo, nonostante per duecento anni si sia lottato per un miglioramento delle condizioni lavorative. Sancire per legge lo sfruttamento delle donne è un passo in avanti solo per chi le sfrutta.


DUE NOTE LEGALI

In Italia la prostituzione è già legale. Quello che è reato è lo sfruttamento, il favoreggiamento e l’induzione alla prostituzione. Quindi quando si parla di “legalizzazione” si parla della “legalizzazione dello sfruttamento”. La prostituta non è perseguibile in quanto tale. Quindi il nostro “unicorno”, la sex worker che desidera senza nessun condizionamento socio-economico fare questo mestiere, può già farlo, anzi, deve pure pagare le tasse (qui). Un gran passo in avanti? No, perché la nostra sex worker così dovrà mantenere con tutta probabilità due papponi, quello che le garantisce l’incolumità o l’appartamento, e lo Stato.

Quindi le sex workers volontarie hanno già a disposizione INPS, contributi e assistenza sanitaria come qualsiasi altro lavoratore. A chi giova quindi legalizzare lo sfruttamento?

Un aspetto positivo della legislazione italiana, non presente in altri paesi europei, è rappresentato dall’articolo 18 della legge 40/1998 sull’immigrazione, che NON prevede il rimpatrio per le prostitute che denunciano i propri sfruttatori, ma un programma di protezione sociale che dà loro un permesso di soggiorno convertibile in permesso di studio o lavoro. Una legislazione ottenuta sotto diretto input delle associazioni che lavorano con i/le sex workers.

Nel 1958, la legge Merlin ha sancito che la prostituzione non è un atto illecito e quindi non sono perseguibili né il cliente né la prostituta, restano tuttavia passibili reato tutti quei soggetti terzi che in qualche modo approfittano della prostituzione, quindi anche semplici fidanzati/e e conviventi. Ciò rappresenta una falla nella legge, dato che in questo modo per le prostitute diventa difficile condividere un’abitazione o sindacalizzarsi, inoltre rende i luoghi pubblici l’unico spazio lecito dove si incontrano la domanda e l’offerta. Quindi le aree problematiche permangono anche dentro al modello abolizionista.


I MODELLI

L’esperienza della legalizzazione in Germania e Olanda ha mostrato tutte le falle di questo modello: è vero, è le prostitute sono equiparate a qualsiasi altra categoria professionale, sono tutelate a tutti i livelli giuridici, fiscali e lavorativi, possono rifiutarsi di accontentare alcuni clienti o fornire alcune prestazioni e hanno accesso a controlli medici e sanitari.

Tutto questo sulla carta perché in realtà sono le dinamiche stesse del sistema capitalista a impedire l’applicazione di questi buoni propositi:

«Se dici di no, o c’è il proprietario del locale che ti caccia, o non lavori più perché le colleghe fanno al posto tuo quello che tu non fai. Allora sei costretta ad accettare per non perdere lavoro e perché non si metta in giro una cattiva voce su di te, tipo: “quella non fa niente”. A volte lo fanno anche per deprezzarti in modo che così costi meno la volta successiva. Anche tra di loro le prostitute si fanno una concorrenza spietata, si dicono per esempio: “lei è malata” oppure “io faccio questo, lei non lo fa”. La solidarietà, come immaginabile, non esiste. I clienti, loro, cercano sempre merce nuova.» (1)

In realtà legalizzare la prostituzione ha fatto da traino a tutta una serie di attività sommerse e illecite, come la prostituzione minorile. L’Organizzazione per i diritti del fanciullo ritiene che il numero dei minori che si prostituiscono in Olanda sia passato da 4.000 nel 1996 a 15.000 nel 2001, un terzo dei quali provenienti dall’estero.

Insomma, la legalizzazione della prostituzione è andata di pari passo a un aumento del fenomeno della tratta, dato che nei paesi in cui la prostituzione legale è molto più facile per i trafficanti svolgere le proprie attività illecite. In Danimarca, dove la prostituzione è legale, il numero delle vittime di tratta è quattro volte superiore alla Svezia nonostante il paese abbia la metà degli abitanti.

Qualcuno sbraita di tasse. Peccato che in Germania le prostitute registrate siano pochissime rispetto alla totalità di chi svolge la professione. Chi vorrebbe registrarsi come prostituta per poi finire marchiata a vita all’ufficio di collocamento una volta finito “il mestiere”, ossia verso i 35 anni? Anche molte altre categorie professionali devono pagare le tasse dello stato italiano… ma semplicemente non lo fanno. Legalizzare la prostituzione per fare pagare le tasse alle sex worker in un paese con un’evasione spaventosa non è nulla più di una sparata da bar sport. A volte assistiamo con sgomento a imbianchini, notai, avvocati e liberi professionisti vari che vogliono legalizzare la prostituzione “perché così anche loro pagano le tasse”. Peccato che spesso le tariffe, sotto la spinta della concorrenza capitalista, non bastino per tenersi in regola, se non lavorando in modo massacrante.

In Germania un’assicurazione sanitaria costa € 500 al mese. Della tanto sbandierata possibilità di usufruire dell’iscrizione alla previdenza sociale per versare contributi si sono avvalse solo 44 prostitute su 400.000 (Internazionale, 1094, 20 marzo 2015). Infatti, le persone che non hanno cittadinanza europea, e che rappresentano oltre un terzo degli operatori del settore, non possono lavorare legalmente nel mercato del sex work, non esistono permessi di soggiorno per prostituirsi.

E le cooperative di prostitute? Anche in questo caso, proprio grazie alla mano invisibile del libero mercato, non reggono alla concorrenza di attività imprenditoriali molto meglio organizzate e più abbienti.

Inoltre, le tariffe delle prostitute sono in caduta libera a causa del flusso di immigrate in seguito all’ingresso nella UE di Romania e Bulgaria: spesso chi si prostituisce nei cosiddetti sex box, pensiline lungo la strada, arriva a 10 euro a prestazione.

La Svezia ha preso una direzione diametralmente opposta a quella del modello tedesco e, mentre prostituirsi non è reato, lo è acquistare sesso. Chiunque venga colto in flagrante mentre sta comprando servizi sessuali viene multato o arrestato. Questo modello è stato adottato anche in Norvegia e in Islanda e recentemente il parlamento di Strasburgo ha approvato una risoluzione che chiede di punire chi compra servizi sessuali, dato che l’unico modo di stroncare l’offerta sembra quello di punire la domanda, criminalizzando i compratori.

In Italia il numero dei clienti si aggira tra i 2,5 e i 9 milioni, praticamente 1/3 degli uomini adulti è cliente di prostitute. È un dato abbastanza spaventoso, che la dice lunga sul fatto che 1/3 degli uomini non si faccia alcun problema a contribuire a schiavizzare per il proprio piacere sessuale donne che sa essere nella maggioranza dei casi vittime di sfruttamento e violenza. È in questo dato che si esprime tutta la prevaricazione del patriarcato e del capitale.

In Svezia, la prostituzione in strada è praticamente sparita e la criminalizzazione del cliente ha alle spalle un forte sostegno sociale (il 71% degli svedesi è a favore).

Tuttavia, anche questo modello presenta dei lati negativi: solo perché non vi siano prostitute sulle strade non significa che non vi siano fenomeni di tratta. Inoltre questo approccio molto severo nei confronti dei clienti spinge la domanda e l’offerta a incontrarsi in modo molto più nascosto e sfuggente alle autorità, cosa che pone le prostitute in una posizione più vulnerabile.

Va inoltre considerato che la Svezia ha un sistema sociale estremamente forte, non vi sono grandi diseguaglianze sociali, i flussi migratori sono limitati e le donne subiscono discriminazioni inferiori rispetto ad altri paesi europei, sia a livello sociale che lavorativo, e hanno meno “bisogno” di ricorrere alla prostituzione.

Poi c’è la Nuova Zelanda, che ha depenalizzato sia l’offerta che la domanda di servizi sessuali e tale modello sembra dare buoni risultati, con un buon grado di soddisfazione anche delle associazioni d* sex workers, che hanno giocato un ruolo fondamentale nella messa a punto della legge. Bisogna tuttavia considerare che il fenomeno immigratorio in Nuova Zelanda è molto ridotto e quindi il paese ha caratteristiche sociali abbastanza particolari. Anche in questo caso il fenomeno della “prostituzione per bisogno” non è stato estirpato, dato che il mestiere continua ad essere appannaggio delle classi meno abbienti.


IL MODELLO CHE FUNZIONA

La strada sembra senza uscita. La polemica tra sostenitori della legalizzazione e abolizionisti è del tutto sterile se non si considera il contesto sociale, e quindi economico, in cui la prostituzione avviene.

La prostituzione non è il mestiere più antico del mondo e non è presente in tutte le società umane del passato e del presente. È uno scambio economico nato con la mercificazione del corpo, principalmente femminile. È nato in un preciso momento storico in cui il lavoro, lungi dal rappresentare più una forma di sostentamento personale, è diventato lo sfruttamento di una classe (e di un genere) su un’altra classe. È un fenomeno strettamente connesso alla nascita della monogamia, della società patriarcale e dell’accumulo del capitale.

Considerare il fenomeno della prostituzione senza considerare il contesto sociale in cui questa avviene significa fare i conti senza l’oste. I modelli che diversi paesi hanno adottato vanno dal regalare piene mani enormi profitti agli sfruttatori, al nascondere le prostitute dentro le case stigmatizzandole socialmente, alla equiparazione della prostituzione a qualsiasi altro lavoro.

Ovviamente questi modelli non sono equivalenti, ma sono tutti insufficienti (alcuni dannosi) se non si comprende che il fulcro della questione è lo sfruttamento del lavoro e dei corpi dei lavoratori e delle lavoratrici.

Legalizzare la prostituzione significa accettare di fatto il modello capitalista senza metterlo in discussione. Di contro la prostituzione non può essere abolita a colpi di leggi borghesi, ma deve essere sradicata non tanto tramite battaglie culturali o ingenui desideri di “riforma” della mentalità comune. Per abbattere lo sfruttamento, anche quello sessuale, l’unico strumento è la rivoluzione.

L’unico modo per garantire che nessuno più sia costretto a prostituirsi o a essere sfruttato in un lavoro usurante è fare in modo che i lavoratori abbiano nelle loro mani la proprietà dei mezzi di produzione e quindi abbiano concretamente e fattivamente la possibilità di scegliere la loro vita, senza preoccuparsi della sussistenza o dello stigma sociale. Solo in una società liberata dallo sfruttamento è possibile parlare di libera scelta, solo in una società egualitaria e socialista, in cui nessuno più opprime l’altro, sarà possibile liberare la sessualità da qualsiasi distorsione borghese, prostituzione compresa.

In una società in cui lo sfruttamento è la chiave di volta di ogni esistenza, in cui ci preoccupiamo fin da piccoli di renderci attraverso lo studio e la competizione appetibili a un datore di lavoro, in cui non desta scandalo che Marchionne guadagni come 6400 operai, la cultura (e la prostituzione è un fenomeno culturale, non “naturale” né “eterno” o “antico”) si cambia rivoluzionando i rapporti di produzione, l’economia, le modalità di produzione delle merci, la proprietà.




(1) http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2015/04/24/news/la-prostituta-imprenditrice-di-se-stessa-e-solo-un-mito-la-testimonianza-della-tedesca-inge-1.209433

Collettivo Femminista Rivoluzionario

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