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La lotta di classe è morta! Viva il rapporto Istat!

6 Giugno 2017
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Così recita la grancassa mediatica il 17 maggio in seguito alla pubblicazione del Rapporto annuale dell’Istat.

Borghesia e proletariato sono scomparsi!

Così continuano gli articoli del Corriere della sera e di RaiNews del 17 maggio.

Bene, verrebbe da dire, finalmente si annuncia l’era della società senza classi, l’era dell’ideale comunista! Non scherziamo. In realtà l’annuncio degli organi della borghesia cosiddetta “illuminata” non è altro che il solito scambio tra desideri e realtà! I dati Istat, infatti, dicono un’altra cosa.

La classe operaia è scomparsa? Sicuramente i dati descrivono il grave processo di deindustrializzazione dell’Italia in atto già da alcuni decenni e sicuramente acuita dalla gravissima recessione del 2008 con la perdita secca del 25% di produzione industriale. Questi processi hanno sicuramente favorito la dequalificazione della classe operaia, la riduzione della sua concentrazione in grandi complessi industriali, la sua dispersione sul territorio, il processo di precarizzazione, la proliferazione di forme contrattuali per i lavoratori che svolgono mansioni analoghe. Si può dire che nell’ultimo trentennio sia cambiata la composizione della classe operaia. Ma essa non è affatto scomparsa. I lavoratori dipendenti sono in totale oltre 17 milioni su un totale di 22 milioni di occupati, la grande maggioranza. Di questi oltre 10.000.000 fanno sicuramente parte della classe operaia (4.000.000 nell'industria, oltre 1.000.000 nell'edilizia, 2.000.000 di personale non qualificato, 3.000.000 nei servizi).

E la borghesia? La borghesia nelle sua varie stratificazioni, dalla piccola alla grande, include complessivamente 5.000.000 di occupati. Al suo interno le differenze sociali sono enormi e ad una piccola borghesia impiegatizia attraversata da un processo di declassamento e perdita di reddito si contrappone una classe capitalista sempre più ricca e ristretta: l’1% della popolazione più ricca detiene il 25% della ricchezza nazionale!

La crisi stessa ha aumentato le disuguaglianze e ad un perdita reale del reddito da salario nel periodo 2007-2016 ha fatto da contraltare una massiccia concentrazione delle ricchezze in poche mani, come è a dire che le classi sociali non sono accomunate dalle stesse disgrazie (il famoso detto liberale “siamo tutti sulla stessa barca!”) ma che la classe lavoratrice vene colpita ed impoverita, mentre per i capitalisti la crisi rappresenta una ghiotta occasione di arricchimento.
I dati Istat dunque non possono che rilevare un dato classico del capitalismo, accentuato dalle sue crisi: l’aumento spaventoso della disuguaglianza sociale. Con la crisi sono aumentati i posti di lavoro a basso reddito, il lavoro povero, in confronto ai posti di lavoro a reddito medio. Ciò da un lato contiene la percentuale di disoccupazione ma dall'altro aumenta esponenzialmente il tasso di sfruttamento della classe operaia a cui si unisce la perdita di diritti (scomparsa dell’art.18, rappresentanza sindacale, riduzione del diritto allo sciopero ecc.)

Ciò ha una ricaduta diretta sui livelli d’istruzione, il famoso diritto allo studio, che è sotto la media nazionale per gli operai e soprattutto confinata agli istituti tecnico-professionali o addirittura alla sola licenza media, di contro al numero 8 volte superiore la media nazionale dei diplomati nei licei piuttosto che negli istituti tecnici per i figli della classe dirigente.

Ancora più drammatica è la ricaduta sullo stato di salute e le aspettative di vita che per gli operai e di oltre 4 anni inferiori rispetto alla classe dirigente, un dato enorme se si considera che si tratta di medie.

Secondo i liberali dovremmo lasciar fare al Mercato nella distribuzione del reddito. Consentire al presunto meccanismo regolatore della domanda e dell’offerta di riequilibrare questi spaventosi dati di discriminazione sociale. In realtà l’Istat è costretta ad ammettere che il “potere di mercato dell’impresa aumenta la distanza salariale diminuendo le retribuzioni più basse.”
Non solo. L’Istat descrive le “forze del mercato” quasi fossero forze distruttive a cui contrapporre il sistema del welfare che altrove, al contrario dell’Italia, avrebbe mitigato l’aumento delle disuguaglianze sociale e l’incidenza della povertà assoluta e relativa. In altre parole è la denuncia dell’enorme rapina sociale ai danni della classe lavoratrice che rappresenta l’enorme maggioranza della società.

Insomma, i dati statistici confermano che viviamo in una società sempre più duale.

Altro che fine della lotta di classe!

All'aumento della povertà e dello sfruttamento della classe lavoratrice si sommano altre due bombe sociali:

1) la disoccupazione giovanile di proporzioni stellari (inclusa una quota di Neet, giovani che non lavorano e non studiano doppia rispetto alla media europea) e che costringe 7 italiani su dieci di età under 35 a vivere ancora con i genitori senza la possibilità di avere uno sbocco professionale dignitoso e non falcidiato dalla precarietà lavorativa e semmai di farsi una famiglia;

2) le pensioni povere che per circa il 70€ non vanno oltre i 10.000€ lordi l’anno ( con cui per giunta ora si devono mantenere anche i giovani di cui sopra).

Che dire dunque di un sistema sociale, il capitalismo, che condanna le giovani generazioni a non avere un futuro e al contempo dopo averli spremuti relega i lavoratori nella povertà? Si può solo rispondere che è un sistema sociale fallito che non ha nulla di progressivo da offrire al popolo italiano come a tutta l’umanità.

Infine alcune considerazioni:

innanzitutto la condizione della classe operaia non è dovuta ad una accidente dell’economia ma rappresenta la fotografia impietosa del tradimento dei gruppi dirigenti, politici e sindacali, del movimento operaio. Provenendo dalle file dello stalinismo e della socialdemocrazia in nome del riformismo inconcludente, questi gruppi dirigenti, ex PCI, ex socialisti, ex nuova sinistra, a fronte del vertiginoso aumento dello sfruttamento del lavoro degli ultimi trenta-quaranta anni hanno consentito, con la loro complicità nei confronti dei capitalisti fatta di trasformismo, concertazione e subalternità culturale, la più grande rapina sociale del dopoguerra. Solo una politica autonoma e rivoluzionaria della classe lavoratrice avrebbe potuto e potrà costituire un’autentica alternativa per la società italiana.

Al contrario, questo tradimento ha dato un’enorme spazio di consenso e di penetrazione anche nelle file del proletariato italiano alle forze dei vari populismi reazionari che insieme dominano nell’attuale fase politica: il renzismo, il grillismo e il salvinismo.

Ma, ed è questa l’ultima considerazione, il populismo reazionario, in tute le sue varianti, di governo e d’opposizione, non offre alcuna risposta ai drammi sociali del nostro paese e non potrà che approfondirne tutte le contraddizioni.

F.B.

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