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Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO Prima parte

7 Gennaio 2011

Testo completo dell'intervento

Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori

Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
Care compagne e compagni,
il quotidiano di Confindustria di fine anno ha scelto di celebrare Sergio Marchionne come l'uomo del
2010 con le seguenti parole:" La Fiat ha portato in Italia, finalmente le regole del mondo, piaccia o non
piaccia le regole della modernità"
Bene.
La Fiom espulsa dalla Fiat come non avveniva dai tempi del fascismo.
Gli operai della Chrysler nell'America di Obama costretti a comprare coi propri fondi pensione un posto
di lavoro con paga dimezzata e divieto di sciopero .
I giovani operai cinesi della Foxcon costretti a dichiarare, come condizione di assunzione, che
rinuncieranno a suicidarsi e che le loro famiglie in caso di suicidio non chiederanno danni all'azienda.
Milioni di lavoratori europei sbattuti su una strada dopo decenni di sfruttamento o privati delle protezioni
sociali perchè i loro soldi servono a finanziare quelle stesse banche strozzine che li impiccano a mutui
insostenibili. Mentre le giovani generazioni sono private del diritto al lavoro- o a un lavoro degno- e
persino allo studio.
Intanto milioni di migranti, in fuga dalla fame o dalla morte prodotte dallo sfruttamento occidentale delle
loro terre, trovano proprio in Occidente il bastone del ricatto e della discriminazione più odiosa, sotto la
spinta di un veleno xenofobo e reazionario che in Europa non si vedeva da quasi un secolo.
Queste nuove regole del mondo moderno- tanto esaltate dai campioni della cosiddetta "borghesia
buona"- ci parlano della crisi dell'umanità. Questa è la vera "catastrofe". La catastrofe non sta nei puri
dati economici della crisi, su cui verrò, e tanto meno nell'improbabile "crollo" del capitalismo. La
catastrofe sta nella sopravvivenza quotidiana del capitalismo: di un sistema sociale che ha esaurito ogni
funzione storica progressiva e che trascina nel proprio fallimento la condizione dell'umanità,
condannando il mondo ad una regressione storica.
Per questo la rivoluzione socialista internazionale è l'unico orizzonte realistico di progresso. E noi siamo
orgogliosi di appartenere a quella corrente rivoluzionaria internazionale che non solo non si è mai arresa
e non si arrende alle regole del mondo del capitale, ma le vuole rovesciare. Perchè l'umanità riconquisti
il proprio futuro e innanzitutto il diritto a deciderlo.Perchè se i Marchionne hanno bisogno degli operai, gli
operai non hanno bisogno dei Marchionne.
Ho voluto iniziare così l'introduzione ai nostri lavori perchè questa è la ragione della nostra stessa
esistenza politica, e di riflesso la cornice di fondo del nostro Congresso e della sua riflessione. Che
inquadra non a caso la nostra proposta politica in Italia dentro lo scenario della grande crisi capitalistica
internazionale.
LA CRISI MONDIALE
La crisi capitalistica che da 4 anni investe il mondo , rappresenta la più clamorosa smentita non solo
delle apologie liberali post-89, che annunciavano un futuro radioso dell’umanità, ma anche di quelle
cosiddette culture critiche del riformismo che rappresentavano la cosiddetta globalizzazione quale
nuovo capitalismo, capace di superare il ricorso ciclico delle crisi , le contraddizioni tra gli Stati nazionali,
e dunque le categorie stesse del marxismo e dell’imperialismo.
Queste teorie, che ricorrevano alla rappresentazione dell’onnipotenza capitalista dell’”Impero” al solo
fine di presentare come radicali le più minute ricette liberali come la Tobin Tax, sono state spazzate via
dall’evidenza materiale della crisi.
Questa crisi è infatti la più clamorosa conferma di tutte le categorie analitiche del marxismo sul carattere
anarchico del capitalismo e sulla sua fase storica di decadenza. Il crollo del muro di Berlino e dello
Stalinismo non solo non ha rilanciato l' ordine mondiale del capitalismo ma ha amplificato tutte le sue
contraddizioni.
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
La radice di fondo della crisi non sta nelle cosiddette politiche sbagliate degli ultimi 20 anni, come a dire
che correggendo le politiche liberiste di eccessiva finanziarizzazione dell’economia, si potrebbe superare
la crisi. In un certo senso questa teoria che accomuna liberal progressisti e riformisti capovolge l’ordine
delle cose. La lunga stagione di espansione del capitale finanziario fu per molti aspetti non la causa ma il
riflesso di una lunga crisi strisciante e al tempo stesso un suo mascheramento. Fu l’esaurimento del
boom postbellico e il rallentamento dell’economia mondiale dalla metà degli anni 70 a creare
un’eccedenza progressiva di merci e capitali, a sospingerli verso il mercato finanziario, a sostenere per
questa via una domanda artificiale come tampone della crisi. Proprio per questo l’esplosione della
grande bolla finanziaria non ha fatto che disvelare e al tempo stesso precipitare una crisi da lungo tempo
incubata: una enorme crisi di sovrapproduzione, quella crisi di sovrapproduzione che per dirla con Marx:
" E' alla base di ogni crisi capitalista e svela l'irrazionalità di un sistema di produzione nel quale è il
massimo della ricchezza a produrre il massimo della miseria". Queste semplici parole di Marx illustrano
la crisi attuale infinitamente meglio delle più sofisticate teorie degli intellettuali organici del capitale.
REALTA' E MITO DEL KEYNESISMO. IL FALLIMENTO DEL RIFORMISMO.
Il punto è che le ideologie liberal riformiste sono confutate non solo nell’analisi, ma anche nei rimedi.
Tutti coloro che a sinistra, per lungo tempo e ancor oggi, presentano l’intervento pubblico nell’economia
capitalista come correttivo sociale del capitale e come fattore di soluzione della crisi, sbandierando la
mitologia di Keynes e del New deal, falsificano la verità della storia e sono smentiti nel modo più
clamoroso proprio dalla realtà di questa crisi.
Falsificano la realtà della storia perchè non fu il New deal di Roosvelt- che peraltro non creò alcun stato
sociale in America- a salvare il capitalismo dalla crisi degli anni 30: fu semmai la gigantesca carneficina
della guerra e la ricostruzione dalle sue rovine.
Ma sono soprattutto smentiti dalla realtà di questa crisi. Chi voleva mettere alla prova le virtù
dell'intervento pubblico nell'economia del capitale è servito. Da 4 anni ci troviamo infatti di fronte, in
America e in Europa, al più grande intervento pubblico degli stati imperialisti e delle banche centrali, a
partire da quelli che fino a ieri recitavano il mantra di un intoccabile liberismo: al punto che la somma
complessivamente investita è superiore a quella spesa nella seconda guerra mondiale. Eppure la realtà
è stata esattamente opposta a quella immaginata dai cantori del keynesismo. Non un sostegno ai salari,
al lavoro, alle protezioni sociali, ma un soccorso gigantesco alle grandi imprese e alle banche pagato
dalla più grande offensiva contro il lavoro e le protezioni sociali degli ultimi 60 anni. E per di più un
fattore esso stesso della riproduzione del meccanismo di crisi. Perchè l'iniezione di risorse pubbliche nel
sistema bancario, attraverso l'acquisto dei titoli tossici non si trasforma in espansione del credito alla
produzione, ma in nuova espansione della speculazione finanziaria. E perchè proprio il soccorso
pubblico del capitale diventa per la prima volta nella storia un fattore di crisi del cosidetto debito sovrano,
cioè di possibile insolvenza di intere organizzazioni statali.
Il fallimento della mitologia Keynesiana non poteva essere più completo.
LE NUOVE CONTRADDIZIONI INTERNAZIONALI
E tuttavia è importante cogliere una visione d'insieme dell'economia mondiale, che da un lato individui la
contraddittorietà dei dati economici, e dall'altro ne misuri l'impatto sugli equilibri politici internazionali,
fuori da una lettura uniforme e solo economicistica della crisi.
Siamo di fronte a un paradosso: se leggessimo i dati economici dell'economia mondiale
complessivamente intesa nella loro apparenza, potremmo persino dubitare della portata e della
continuità della crisi. Basti pensare che nel 2010 il PIL mondiale cresce del 4,8 %, e il commercio
mondiale passa da un - 11% del 2009 a un +11% del 2010. Non sono esattamente i dati di un
cataclisma. Ma il punto è che questi dati nascondono la contraddizione crescente tra i diversi comparti
dell'economia mondiale, con enormi ricadute politiche. Si tratta della contraddizione di fondo tra la crisi
profonda e la sostanziale stagnazione dell'economia dell'occidente e l'imponente sviluppo economico
dell'oriente ( con l'esclusione del Giappone), in particolare della Cina.
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
Questa contraddizione non è nuova. Ma la crisi capitalista l'ha amplificata sotto il profilo economico ed
ha acutizzato profondamente le sue conseguenze politiche. Al punto di trasformare il contrasto fra USA
e Cina nel nuovo baricentro della politica mondiale.
IL DECLINO USA
Gli Usa restano sicuramente la principale potenza capitalista mondiale, a partire dalla perdurante
supremazia militare. Ma dentro una dinamica di crisi crescente di egemonia economica e politica sulle
relazioni internazionali.
Questa crisi non data da oggi. Ha radici strutturali, anche economiche. Ed è maturata sul piano politico
proprio nella nuova fase storica post89, quando il crollo dell'URSS, se da un lato ha enfatizzato la
supremazia militare USA, dall'altro ha privato gli Usa di una rendita di posizione strategica negli equilibri
mondiali.
Ma proprio per questo la crisi capitalistica attuale è per gli Usa, per alcuni aspetti, più pesante che nel
29.E non dal punto di vista economico, ma dal punto di vista politico e strategico. Nel 29-33 la grande
crisi colpì l'America nel momento della sua ascesa storica a scapito del vecchio Impero britannico.( E
Trotski capì con grande intelligenza che la crisi non avrebbe invertito la tendenza storica dell'ascesa
americana). Oggi la crisi colpisce gli Usa nel momento della loro massima difficoltà di egemonia.E per
questo rafforza la tendenza al declino. Sia sotto il profilo economico, dove quello che fu il più grande
creditore della storia del capitalismo si è trasformato nel più grande debitore di quella storia, e per di più
a diretto vantaggio della nuova potenza rivale. Sia sotto il profilo politico internazionale, dove il tentativo
delle nuova Presidenza Obama di rilanciare l'egemonia americana in chiave multilateralista segna il
passo su ogni terreno decisivo della politica mondiale: nel rapporto con gli imperialismi europei, in Medio
Oriente, in Africa, nella gestione delle relazioni tra le valute come in ordine alle scelte energetiche e
ambientali.
La crisi verticale della nuova amministrazione di Barak Obama, decretata dalla sconfitta elettorale di
Novembre, è un riflesso indiretto della grande crisi americana. E questa crisi di Obama continuerà
attraverso lo sfaldamento interno del suo blocco sociale di consenso: minato prima dai costi sociali del
grande sostegno alle banche; ed ora aggravato dalla continuità dei regali fiscali ai ricchi pattuita con i
Repubblicani.
E con la crisi di Obama esplode la crisi dell'Obamismo, la ricorrente suggestione ideologica che spinge
la sinistra europea ad aggrapparsi al salvatore americano per sublimare le proprie sconfitte e
responsabilità. Fu così con la socialdemocrazia europea nei confronti di Roosvelt negli anni 30. E così è
stato oggi nei confronti di Obama persino da parte della cosiddetta sinistra "radicale". Con una
differenza. Negli anni 30 la socialdemocrazia celebrava col New deal di Roosvelt la simulazione
"riformista" di un imperialismo in ascesa. Oggi la sinistra cosiddetta radicale è giunta a salutare come
"nuova speranza per l'umanità"- per citare testualmente le parole alate di Vendola- il Presidente della più
grande potenza imperialista in declino e la sua politica di salvataggio dei banchieri. Confermando anche
così, al di là delle parole, la propria subordinazione al capitalismo internazionale.
LA SCALATA DELLA CINA
Ma soprattutto il declino americano è misurato dall'ascesa della Cina sullo scenario mondiale. E' una
questione centrale nel panorama internazionale. E' stata anche materia di discussione nel nostro stesso
congresso, e lo sarà nella discussione internazionale del CRQI. E costituirà oltretutto un tema importante
di confronto con altre forze e tendenze del movimento operaio internazionale e della stessa sinistra
italiana: se solo si pensa che larga parte della Fed condidera la Cina un Paese socialista, che una nuova
formazione come Sinistra Popolare saluta enfaticamente il Premier cinese nell'atto stesso del suo
congresso fondativo, che nuove Associazioni politico culturali fondate da organizzazioni di estrema
sinistra -tra cui la Rete dei Comunisti- vantano la pubblica benedizione dell'amica ambasciata cinese.
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
Dove sta il tragico paradosso di queste posizioni? Sta nel perfetto rovesciamento ideologico della realtà.
La Cina non solo è oggi un paese capitalista, che ha visto la progressiva mutazione di una burocrazia
stalinista in nuova borghesia, che si regge su una proprietà largamente privata e sul supersfruttamento
manchesteriano della propria giovane classe operaia. Ma è un paese che sta mettendo l'eredità del
settore pubblico dell'economia e di un apparato statale totalitario al servizio di uno sviluppo capitalistico
concentrato e straordinario: una sorta di capitalismo di Stato che proprio in ragione della potenza statale
si candida a ripercorrere la via della rapidissima ascesa, nell'ultimo 800, del capitalismo tedesco o del
capitalismo giapponese .
E' vero: questo quadro va bilanciato da fattori contraddittori, potenzialmente esplosivi. Il grattacielo
cinese poggia tuttora su fondamenta incerte. I grandiosi scioperi operai del Guandong, che salutiamo
come un fatto di straordinaria importanza per l'intero movimento operaio internazionale, indicano le
potenzialità dirompenti di una ascesa operaia sugli equilibri interni della Cina e di riflesso sullo scenario
mondiale. La stessa unità dell'apparato di regime, che sinora ha gestito la restaurazione capitalista,
potrebbe essere messo a dura prova nel caso del precipitare di una crisi sociale.
Ma questi fattori ed eventualità non possono nascondere la tendenza attuale, in tutta la sua enorme
portata. Lo sviluppo cinese non solo non è stato travolto dalla crisi mondiale, ma si è rafforzato nella crisi
, capitalizzando a proprio vantaggio le difficoltà dell'America e dell'Europa.
E' la crisi e il conseguente deprezzamento di azioni e titoli dell'occidente, a consentire lo straordinario
schopping della Cina nell'economia mondiale con il passaggio da 1 miliardo a 56 miliardi di investimenti
esteri in Usa ed Europa nel solo quinquennio tra il 2004 e il 2009.
E' la crisi e l'enorme indebitamento pubblico dei paesi imperialisti a ridurre il loro spazio di manovra
verso i paesi dipendenti, favorendo la grande espansione cinese in Africa e in Asia, a caccia di materie
prime a basso costo e soprattutto di terre coltivabili.
E' lo scarto tra la crisi occidentale e lo sviluppo cinese a ridurre il divario di potenza militare tra i
tradizionali paesi imperialisti costretti a contenere le spese in armamenti, ed una Cina che accresce ogni
anno il proprio dispositivo bellico e che ormai si avvia a rappresentare la più grande potenza navale
militare del mondo.
E tutto questo su uno sfondo che già oggi vede la Cina come primo paese esportatore, primo produttore
di supercalcolatori e di treni ad alta velocità, primo investitore in ricerca scientifica e tecnologica. E
soprattutto come il paese detentore di un grande potere di condizionamento internazionale, attraverso il
controllo del debito pubblico americano, l'investimento crescente nel debito europeo, e il possesso in
semimonopolio di quelle cosiddette "terre rare" che sono oggi le materie prime decisive dell'alta
tecnologia mondiale.
Certo: come abbiamo sottolineato nel testo congressuale, la Cina è ancora ben lontana, nonostante
tutto, dal poter contendere direttamente agli Usa l'egemonia mondiale, a causa di diversi fattori tra loro
intrecciati, a partire dalla non convertibilità dello Yuan e dell'accerchiamento strategico in Asia. Ma resta
l'altra faccia della medaglia: il fatto che gli USA non possono dominare e piegare la Cina , nè come
paese dipendente, nè come potenza rivale. Nell'85 l'America di Reagan ebbe la forza di imporre
all'emergente Giappone la rivalutazione della sua moneta, spezzando la sua ascesa e votandolo al
declino. Oggi L'America di Obama non ha la forza di imporre alla Cina la rivalutazione dello Yuan. Ciò
che determina a sua volta il ricorso alla svalutazione del dollaro, una guerra internazionale tra le valute,
un ritorno diffuso del protezionismo, l'approfondimento di tutte le contraddizioni mondiali.
Il declino americano e l'ascesa cinese segnano dunque, nel loro rapporto, la linea del fronte dello
scenario internazionale, con potenzialità dirompenti nella prospettiva storica:inclusa la possibilità della
guerra.
LA CRISI EUROPEA
L'Unione europea è il classico vaso di coccio della crisi mondiale e della tenaglia Usa- Cina .
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La suggestione lanciata nel 2000 a Lisbona di un primato dell'Europa su scala internazionale entro il
2015 si è convertita 10 anni dopo nel suo esatto opposto. Non solo l'Unione Europea non ha
capitalizzato a proprio vantaggio la crisi americana, ma il combinato della crisi internazionale e
dell'ascesa asiatica ha marginalizzato come mai in passato il ruolo mondiale degli imperialismi europei.
Tutte le debolezze strutturali e politiche dell'Unione, già sottolineate e analizzate dal nostro primo
Congresso, sono state aggravate e amplificate, dallo scenario mondiale.
E' ormai la struttura stessa della U.E. ad essere messa in discussione dalla crisi. Le colonne d'Ercole dei
trattati di Maastritch e del Patto di stabilità sono state travalicate in un batter d'occhio dall'enorme
espansione dei debiti pubblici dovuta al soccorso prima delle banche e poi degli Stati sovrani a rischio
Default, come la Grecia e l'Irlanda, verso cui sono esposte le banche , in primo luogo tedesche. A sua
volta, proprio la nuova produzione di debito pubblico, e gli strumenti straordinari approntati per la sua
gestione, esaltano ogni giorno di più la contraddizione strutturale di fondo su cui l'Unione si appoggia:
l'assenza di un Ente garante in ultima istanza del debito pubblico, dovuta all'assenza di un'unità statale
europea. La federal Riserve americana è garantita dagli Stati Uniti. La BCE, il Fondo europeo di stabilità
programmato sino al 2013, e infine il nuovo meccanismo monetario concordato per gli anni successivi,
non sono garantiti e coperti da nessuna unità statale federale. Oltre ad avere una portata ridotta
d'intervento. Ciò che rappresenta una mina esplosiva per il sistema finanziario europeo.
Di Più. Proprio nel momento in cui la crisi mondiale solleciterebbe un passo avanti dell'integrazione
politica europea, si approfondiscono sotto il peso della crisi le contraddizioni interne al quadro
continentale. A partire dalla riemersione storica, in forme nuove, della vecchia questione Tedesca.
Siamo di fronte ad una situazione singolare . In astratto la Germania è l'unico stato Europeo che
potrebbe guidare un processo di Unificazione continentale. Nel concreto la Germania è oggi il principale
fattore di divisione e contraddizione in Europa.
La Germania è oggi l'unico paese europeo che conosce una reale ripresa economica dopo la
recessione del 2009, grazie ad una potente struttura industriale e all'ancoraggio decisivo col mercato
asiatico . Ma ha un tallone d'Achille molto pericoloso: un'enorme esposizione bancaria verso il debito
pubblico dell'Est europeo e dei paesi europei mediterranei. Questo nodo non può essere sciolto nè
dall'espulsione di tali paesi dalla U.E., nè dall'abbandono tedesco dell'Unione ( soluzioni entrambe
suicide per le esportazioni e le banche tedesche). E viene dunque affrontato in modo opposto: con una
sorta di commissariamento finanziario strisciante delle banche tedesche sull'economia europea, con la
concertazione di una disciplina finanziaria sempre più vincolante che moltiplica tutte le tensioni nazionali
tra il cuore industriale del Nord Europa e i paesi europei mediterranei, tra la Germania ed altri paesi
imperialisti, tra l'euro e le altre valute. Per di più con effetti economici restrittivi sul mercato continentale
che rendono ancora più arduo l'abbattimento dei debiti pubblici.
Per tutto questo è storicamente in discussione la stessa sorte della moneta unica.
PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA
Siamo dunque al fallimento conclamato di ogni vecchio europeismo. Sia dell'europeismo liberale che
apertamente rivendicava l'Unità capitalisica europea. Sia dell'europeismo riformista e centrista, che alla
coda dei liberali rivendicava e rivendica un Europa "sociale e democratica" su basi capitaliste: grazie ai
sospirati ministeri " di sinistra" o alla pressione dei movimenti sociali, o a entrambi i fattori. Ancora una
volta la realtà ha spazzato via queste fantasie configurando uno scenario opposto: Il massimo di
divisione in Europa, il massimo di offensiva sociale antioperaia ,sotto le insegne di qualsivoglia governo
europeo..
Tutte le mitologie di una possibile socialdemocrazia progressiva sud europea- da Yospin a Zapatero-
regolarmente alimentate dalle cosiddette sinistre "radicali", anche italiane, sono state ridicolizzate, una
dopo l'altra, dall'esperienza degli ultimi 15 anni. Ed oggi è proprio il crollo del mito Zapatero, ancora
intoccabile a sinistra sino ad un anno fa, a liquidare la credibilità di ogni illusione. Quello che fu indicato
anche in Italia, anche in Rifondazione, come il possibile faro di un centrosinistra progressista è quello
stesso governo che spara sui migranti, liberalizza i licenziamenti, porta le pensioni a 67 anni, in un duro
confronto con i lavoratori e i giovani.
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E' la riprova che i lavoratori non potranno mai avere per amico il proprio governo
cosiddetto"progressista", che è poi il governo dei propri sfruttatori, ma solo i lavoratori degli altri paesi.
Alla Fiat che in questi giorni spiega agli operai di Mirafiori che se non si piegheranno al ricatto ricorrerà
agli operai serbi, polacchi, americani, va risposto che proprio gli operai serbi, polacchi, americani sono i
migliori alleati possibili degli operai di Mirafiori: quando solo si libereranno di ogni illusione verso i
Marchionne, quando si scrolleranno di dosso ogni rassegnazione, quando troveranno la via di una
piattaforma di lotta internazionale unificante che superi ogni divisione di frontiera: per una ripartizione
internazionale del lavoro attraverso la riduzione progressiva dell'orario, per l'esproprio delle aziende
sfruttatrici, a partire dalla Fiat, perchè il potere passi nelle mani nel lavoro. " Gli operai non hanno patria"
scriveva il Manifesto del Partito Comunista nel lontano 1848. Oggi questo appello è, se possibile, ancor
più centrale di allora.
Ma per portare questa verità nella coscienza politica della nuova generazione operaia è necessaria
un'altra direzione del movimento operaio europeo e un altro programma. Negli anni 20 i comunisti
rivoluzionari d'Europa, dopo il massacro della grande guerra, lanciarono la prospettiva degli Stati Uniti
Socialisti d'Europa come l'unica possibile soluzione progressiva della crisi del vecchio continente.
Socialdemocrazia e Stalinismo respinsero o abrogarono quella parola d'ordine. E' il momento di
riprenderla. Perchè solo rifondando l'Europa su nuove basi sociali è possibile unirla a vantaggio dei
lavoratori.
Questo è il programma cui ricondurre le lotte di classe e le mobilitazioni sociali contro la crisi dei diversi
paesi europei. Questo è il programma europeo della nostra organizzazione internazionale e delle sue
sezioni, come l'organizzazione del EEK in Grecia che ha svolto e svolge un intervento di prima linea
nella lotta di massa del proprio paese, anche pagando il prezzo della repressione poliziesca. Unico
partito della sinistra greca- non a caso- a rivendicare l'annullamento del debito pubblico verso le banche
e a porre la prospettiva del potere dei lavoratori come alternativa reale alla crisi capitalista e alla miseria
sociale. Ai nostri compagni greci e alla loro lotta- che è la nostra lotta- va il caloroso sostegno di questo
congresso.
LA LOTTA DI CLASSE IN EUROPA. LIMITI E POTENZIALITA'.
In tutta Europa si alza lo scontro sociale.
Tutti i fattori della crisi mondiale si scaricano sulla classe operaia europea.
Gli effetti della crisi capitalistica, le ricadute della concorrenza asiatica, i costi sociali del sostegno alle
banche e ai titoli sovrani, si sommano l'uno sull'altro sino a configurare il più violento attacco alle
condizioni materiali della classe lavoratrice di tutto il secondo dopoguerra.
Dopo la lunga stagione della precarizzazione del lavoro, giunge l'offensiva frontale contro i diritti
contrattuali, i sussidi sociali, le prestazioni pubbliche, con un vero salto di qualità. I lavoratori, i precari, i
disoccupati, già spremuti da 20 anni di politiche di austerità, sono ovunque chiamati a pagare crisi e
bancarotte del capitale. Con una differenza indicativa rispetto agli anni 90. Allora le classi dominanti
d'Europa chiedevano sacrifici sociali nel nome della promessa ipocrita di una futura prosperità. Oggi le
stesse classi dirigenti, poste di fronte al proprio fallimento, presentano i sacrifici come destino obbligato
di un inevitabile declino, inscritto nelle nuove regole del mondo.
La reazione della classe operaia europea a questo salto dell'offensiva capitalista non è stata e non è
lineare, ma anzi registra profonde contraddizioni.Nulla sarebbe più sbagliato, proprio da un punto di vista
marxista, nascondere a noi stessi questa realtà. Anche perchè proprio il quadro contraddittorio della lotta
di classe internazionale conferma nel modo più clamoroso il metodo marxista di lettura della complessità
del rapporto tra crisi economica e lotta di classe.
Guardiamo anche qui al divario tra Asia ed Europa.
In Cina in particolare e in larga parte dell'Asia, assistiamo ad un'ascesa della classe operaia industriale,
entro un quadro ancora frammentato, ma con fenomeni crescenti di radicalizzazione. Queste lotte non
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sono figlie della crisi, seppur si legano in qualche modo alla crescente spinta inflazionistica. Sono
l'effetto, all'opposto di uno sviluppo capitalistico asiatico, esteso e concentrato, che ha accumulato
enormi riserve di giovane classe operaia che chiede di partecipare alla ricchezza prodotta e rifiuta la
rassegnazione delle precedenti generazioni.
Nell'Europa segnata dalla crisi, il quadro è sostanzialmente diverso. La crisi si è abbattuta sul corpo
sociale di un mondo del lavoro non in ascesa, ma segnato da lunghi anni di arretramenti sociali e
delusioni politiche. In questo contesto la crisi non solo non ha prodotto, in prima battuta, una reazione di
lotta proporzionale alla gravità dell'attacco, ma ha teso ad ampliare fenomeni di disarticolazione e
disorientamento nella classe, in particolare nella classe operaia industriale, naturalmente aggravati in
modo determinante dalle direzioni politiche e sindacali del movimento operaio. Prova ne sia che nei due
anni di recessione europea, 2008 e 2009, nei paesi chiave dell'Europa, pur in presenza di un attacco più
feroce, il livello complessivo di mobilitazione del proletariato è stato inferiore a quello della prima metà
del decennio.E' il caso della Francia e dell'Italia.
Ma nulla sarebbe più sbagliato che attestarsi su una visione statica della realtà.
Già nel 2010, dopo la crisi greca e il varo del nuovo piano finanzario europeo di lacrime e sangue, si
sono moltiplicati i sintomi di una ripresa di lotte. Le grandi mobilitazioni di massa in Grecia, gli scioperi
generali in Spagna, Portogallo, Irlanda, le manifestazioni della Fiom in Italia dopo Pomigliano, le ascese
studentesche e giovanili in Gran Bretagna e in Italia, e soprattutto la lotta continuativa in Francia, in
autunno, di milioni di lavoratori del settore pubblico e dei servizi, danno la misura su piani diversi,
nonostante tutto, dell'instabilità del quadro sociale.Non è un caso.
Al di là delle oscillazioni contingenti dei livelli di mobilitazione, l'Europa è attraversata infatti da una
contraddizione potenzialmente esplosiva. Infatti tutti i governi europei sono trascinati dalla crisi ad
un'escalation progressiva dell'aggressione sociale al lavoro e alle giovani generazioni, nel momento
stesso in cui non hanno più niente nè da offrire nè da promettere ai lavoratori e ai giovani. I loro blocchi
sociali tradizionali d'appoggio sono minati o disgregati dalla crisi. Tutti i governi borghesi senza
eccezioni, da Sarkosy a Zapatero, da Camerun a Berlusconi, da Merkel a Papandreu, attraversano una
crisi progressiva di credibilità e di consenso. Gli stessi partiti dominanti su cui si reggono e le relative
coalizioni sono percorsi da crisi o fratture di diversa ampiezza. La borghesia domina ma la sua
egemonia si riduce. Qui sta la miccia di possibili esplosioni sociali, di brusche svolte della lotta di classe,
di processi di radicalizzazione di massa, tanto più in un contesto in cui i tradizionali ammortizzatori
sociali sono erosi dalla crisi e i tradizionali ammortizzatori politici, dalle socialdemocrazie ai partiti
stalinisti, sono complessivamente più deboli che in passato come strumenti di controllo burocratico sulle
masse.
La proccupazione crescente dei circoli dominanti europei per quello che essi stessi chiamano "il rischio
sociale" ha qui la sua radice.
L'ITALIA: IL SALTO DELL' OFFENSIVA BORGHESE. LA VALANGA FIAT
E' in questo contesto generale che va inquadrato il caso italiano.
La situazione italiana riflette e condensa tutti i caratteri di fondo della situazione europea .Ma in forme
particolari, e con dinamiche proprie.
Il quadro d’insieme in Italia può essere sintetizzato con queste parole:
IL MASSIMO DELL’OFFENSIVA SOCIALE CONTRO IL MONDO DEL LAVORO COINCIDE COL
MASSIMO DEL DISORDINE POLITICO NEL CAMPO DELLA BORGHESIA.E' questa la contraddizione
che va indagata e razionalizzata.
Al pari di altri capitalismi europei, ma gravato da uno straordinario debito pubblico, e colpito
profondamente dalla crisi mondiale sul lato dell’industria esportatrice, il capitalismo italiano sviluppa un
salto storico della propria offensiva contro il lavoro.
Come in altri passaggi della storia italiana la FIAT prende la testa di un attacco frontale al movimento
operaio, con l’obiettivo di scardinare il contratto nazionale di lavoro, di avviare la progressiva
individualizzazione dei rapporti contrattuali, di "distruggere" in buona sostanza la FIOM. Prima l'attacco a
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Pomigliano, poi lo sfondamento a Mirafiori non sono un generico approfondimento, per quanto
grave,dell'offensiva padronale degli ultimi vent'anni.Sono una drammatica soluzione di continuità.Sono
un progetto reale di americanizzazione delle relazioni sindacali in Italia, in aperta rottura con lo stesso
quadro della legalità borghese. Mai era accaduto, neppure negli anni 50, che il principale sindacato della
classe operaia industriale, la Fiom,venisse espulso dalla rappresentanza sindacale delle principali
fabbriche italiane in quanto non firmatario di accordi capestro. Questa linea di sfondamento ha certo una
specificità Fiat, è sospinta da un'amministratore delegato sempre più attento agli interessi multinazionali
dell'azienda che alle stesse strategie complessive del padronato italiano, e infatti è talmente dirompente
da aver spiazzato gli stessi vertici di Confindustria. Ma al tempo stesso quest'azione di sfondamento Fiat
apre un varco all'intera borghesia italiana, sposta in avanti la frontiera dell'intera offensiva
confindustriale, apre una possibile dinamica a valanga capace, se non arrestata, di investire come un
ciclone l'intero quadro dei rapporti di lavoro.
Parallelamente l'offensiva del governo contro il PUBBLICO IMPIEGO, la SCUOLA, l’UNIVERSITA’, la
SANITA’, la CONDIZIONE SOCIALE del MEZZOGIORNO dentro il progetto reazionario del federalismo
mira a scaricare sulla classe operaia e sulle vaste masse popolari i costi sociali del cosiddetto debito
pubblico, cioè, in termini meno tecnici e aulici, il costo dei 70 miliardi pagati ogni anno alle banche,
italiane e straniere, in termini di interessi sui titoli pubblici. Anche qui non si tratta di un'offensiva
ordinaria, nè di soli tagli, per quanto imponenti. Il disegno Tremonti- Sacconi- Brunetta ha una valenza
strategica: mira a liberare, dentro lo smantellamento del settore pubblico un nuovo spazio per il mercato
finanziario e il business privato- dalla più avanzata aziendalizzazione di scuola e università, al nuovo
mercato annunciato della sanità integrativa, al decollo massiccio del trasporto ferroviario privato-. e per
questo punta alla privatizzazione progressiva dei rapporti di lavoro nell'amministrazione dello Stato e al
ritorno delle famigerate note di merito . Siamo dunque, come nel settore industriale, ad un ulteriore salto
di qualità . Anche qui col supporto decisivo dell'agenzia di servizio della Cisl, sempre più succursale
distaccata del governo. Anche qui, dentro il varco aperto negli anni passati dalle politiche del
centrosinistra, autentiche battistrada dell'offensiva odierna in tutti i settori decisivi, dalle pensioni alla
scuola alle poste. Anche qui utilizzando ancor oggi il sostegno delle opposizioni parlamentari come nel
caso del sostegno del centrosinistra al federalismo.
L' ITALIA: LA CRISI POLITICA BORGHESE
Ma, ecco il punto,
la borghesia italiana si trova a compiere il salto della propria offensiva nel momento della precipitazione
della propria crisi politica. La crisi congiunta del governo e delle opposizioni ne è l'espressione più
evidente.
La crisi esplosiva del berlusconismo non solo smentisce tutte le rappresentazioni impressionistiche di un
regime consolidato e compiuto, ma è fattore a sua volta di una più ampia destabilizzazione politica.
La crisi del berlusconismo è stata il prodotto di più fattori combinati. Certo la crisi capitalistica e i ristretti
margini di manovra del governo, a causa dei vincoli del debito pubblico, hanno eroso una parte della
base sociale di consenso di cui il governo disponeva. Ma il fattore scatenante della precipitazione della
crisi ha un’origine tutta politica. La clamorosa frattura sulla leaderschip tra Berlusconi e Fini, al netto di
rivalità ed ambizioni personalistiche, riflette in ultima analisi il fallimento del Popolo della Libertà. Non è
stato semplicemente il fallimento dell'unificazione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, se non di
riflesso. E' stato essenzialmente il fallimento della costruzione di un partito conservatore di massa di tipo
tradizionale, capace di unire diverse formazioni politiche e culture attorno ad una possibile
rappresentanza dell’interesse generale borghese e a un equilibrio di leadership. Tutto ciò si è rivelato
incompatibile col “berlusconismo”: un fenomeno anomalo e spurio della vita politica borghese, un
impasto di familismo, aziendalismo, spirito di clan, megalomania cesarista, col contorno pittoresco di
faccendieri e prostituzioni d’alto borgo, che ha rappresentato e rappresenta un tratto atipico della politica
europea e della storia italiana del dopoguerra.Lo stesso grande capitale ha avuto ed ha un rapporto
contraddittorio con Berlusconi. L'ha usato ciclicamente a piene mani contro i lavoratori e nei suoi propri
interessi, e certo ha appoggiato questo suo terzo governo più di quanto avesse fatto nel 94 o nel 2001,
in ragione della sua maggiore forza iniziale. Ma al tempo stesso non si è mai affidato al parvenù
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
Berlusconi e al suo mondo. E non a caso in questi ultimi mesi l'indebolimento politico del governo ha
spinto importanti settori dell'esthablisment a ricercare soluzioni alternative
Ma la crisi profonda del berlusconismo si combina con la crisi parallela del campo parlamentare delle
opposizioni. E' questo un aspetto centrale della situazione politica, tanto più dopo la svolta del 14
Dicembre.
Queste opposizioni sono fondamentalmente unite nel tentativo di rimpiazzare Berlusconi con un governo
del grande capitale a guida Bankitalia o simili, capace di fondare le proprie politiche antioperaie su una
più ampia base parlamentare e su un possibile coinvolgimento concertativo della Cgil. Ma sono
profondamente divise nel perseguire questo disegno, dentro una spirale senza fine di conflitti interni e
contraddizioni paralizzanti. Basta osservare il campionario di questi mesi.Da un lato Il costituendo Polo
della Nazione, che si candida a guidare il ricambio borghese a Berlusconi, è segnato sin dalla nascita da
un contrasto decisivo di interessi tra UDC e FLI, in fatto di leaderschip, di rapporti col Vaticano, di
progetti istituzionali, col risultato di ripiegare nell'adattamento critico al governo, su pressione di
Confindustria e Chiesa. Dall'altro lato il Pd, ancora segnato dal fallimento del disegno bipartitico di
Veltroni, appare un partito in cerca di autore: paralizzato tra la ricerca di un accordo di governo col Terzo
Polo, di cui non esistono ad oggi le basi politiche, e la riproposizione del vecchio centrosinistra, che lo
espone all'incursione di Vendola .Il tutto in un quadro di perdurante instabilità interna e di nuove possibili
fratture.
La risultante d'insieme di questo scenario è molto semplice: nel momento della massima crisi del
Berlusconismo, le opposizioni borghesi a Berlusconi consumano il proprio fallimento. Il 14 Dicembre la
Camera dei Deputati ha dato di questo fallimento una rappresentazione plastica. E questo fallimento, si
badi bene, ha una radice, in ultima analisi, proprio nella natura borghese di queste opposizioni, nella loro
dipendenza organica dagli interessi di Confindustria, nell'impossibiltà per la loro stessa natura di
mobilitare le masse contro il governo e dunque di incidere sul suo blocco sociale. Se guardiamo bene
persino la vicenda parlamentare del 14 dicembre è la cartina di tornasole di questa realtà, con risvolti
grotteschi. Le stesse opposizioni parlamentari che avevano presentato a Novembre la mozione di
sfiducia al governo, hanno regalato a Berlusconi un mese decisivo per consentirgli di varare la legge
finanziaria di stabilità ( a vantaggio di scuole private e missioni di guerra) su comando degli industriali,
delle banche, dell'Unione europea, della Presidenza della Repubblica. E il brillante risultato è che
Berlusconi ha utilizzato il mese concesso per corrompere deputati dell'opposizione, capitalizzare le sue
contraddizioni, capovolgere i rapporti parlamentari. E a sua volta questa imprevista salvazione ha
regalato al governo un nuovo margine di manovra, sia sul piano parlamentare, sia nel rapporto coi poteri
forti, prolungando la sua precaria sopravvivenza.
Ma resta il fatto che non c'è una base politica reale per la stabilizzazione della legislatura.
E se si andrà ad elezioni politiche anticipate - come vorrebbe la Lega ma non Berlusconi- vi si andrà
letteralmente al buio, senza nessuno sbocco realistico di un nuovo equilibrio politico ed istituzionale, ma
anzi con possibili effetti ancor più destabilizzanti.
LA CRISI DELLA 2° REPUBBLICA
L’intero scenario della crisi politica italiana in pieno svolgimento, suggerisce, al di là dei suoi passaggi
contingenti, una considerazione di fondo.
La crisi congiunta del berlusconismo e delle opposizioni non è solo la crisi, per quanto profonda, degli
equilibri parlamentari, ma riflette e trascina con sé la crisi della II Repubblica: la crisi di quella
costruzione politico ed istituzionale, peraltro incompiuta, che ha attraversato vent’anni della storia
italiana.
Sotto il profilo politico sta franando il vecchio bipolarismo sotto il peso del sostanziale fallimento politico
speculare della PDL e del PD. Due formazioni anomale rispetto al quadro europeo entrambe incapaci di
stabilizzare un partito centrale della borghesia italiana, con basi di massa, entrambe esposte al rischio
permanente di disgregazione.
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
A sua volta la crisi del vecchio bipolarismo si intreccia con una tendenziale crisi istituzionale. Il
berlusconismo ha rivelato e amplificato tutte le contraddizioni tra i poteri dello Stato. Ha acuito il
contrasto tra costituzione formale e presidenzialismo populista, governo e parlamento, Esecutivo e
Presidenza della Repubblica, governo centrale e presidenzialismi regionali e locali, potere esecutivo e
potere giudiziario.
In un quadro complessivo di instabilità di sistema, obiettivamente sconosciuto agli altri paesi imperialisti.
Ed oggi una crisi del berlusconismo senza sbocco risolutivo è un autentico manifesto della crisi della
Repubblica e un fattore di suo ulteriore aggravamento.
In buona sostanza: potremmo essere alla vigilia di un terremoto politico e istituzionale analogo per la sua
portata a quello che accompagnò nei primi anni 90 la crisi della I Repubblica. Con una differenza. Allora
il processo di crisi dei vecchi partiti borghesi, la modifica delle leggi elettorali, la ricomposizione politica di
nuove forze - sospinto dal crollo internazionale dell'URSS e dall’ingresso italiano nell’Europa di
Maastricht- trovò un fattore scardinante nella Magistratura borghese, un polo di ricomposizione politica
nella costruzione del Centrosinistra, un riferimento trainante nella costruzione europea, una sponda
sociale nella concertazione organica tra Confindustria e burocrazie sindacali, ben strutturate nei rispettivi
blocchi sociali. Ebbe insomma un asse di svolgimento, e un binario di soluzione. Oggi la crisi politica e
istituzionale si consuma in un quadro politico e sociale destrutturato, senza ancoraggio strategico, tra
attori profondamente consunti dai propri falli menti o dalle proprie mutazioni. E per di più sullo sfondo
della massima crisi europea , della più grande crisi capitalistica mondiale, di un nuovo indebolimento, in
essa ,del capitalismo italiano.In questo senso la crisi della seconda Repubblica è, per alcuni aspetti,
persino più profonda della prima.
LA SUBALTERNEITA' DELLE SINISTRE
Proprio questa crisi della II Repubblica evidenzia, una volta di più, la natura delle Sinistre italiane. Non
dei loro “errori” o dei loro “limiti” ma della loro organica vocazione subalterna.
Le sinistre italiane non avanzano nessuna proposta indipendente di soluzione della crisi della repubblica.
Questo è il dato centrale. Non solo. Invece di inserirsi nella crisi italiana in funzione dello sviluppo di una
prospettiva autonoma; invece di riorganizzare un campo autonomo di forze sociali attorno a questa
prospettiva, connettendo resistenza sociale e progetto anticapitalista, le rappresentanze sindacali e
politiche della sinistra fanno esattamente l’opposto: usano la crisi borghese come possibile terreno di
propria ricollocazione d’apparato al fianco della borghesia e dei suoi partiti “democratici”. E per questo
disarmano una resistenza sociale incompatibile con questo progetto.
Tende a ripetersi, in forme diverse, quanto accadde 20 anni fa.
Venti anni fa, la crisi della I° Repubblica e dei suoi pilastri politici e istituzionali, spinse tutte le direzioni
del movimento operaio ad un’accelerata deriva trasformista. La burocrazia CGIL si votò alla
concertazione organica col padronato. Il gruppo dirigente del PCI avviò lo scioglimento del partito e la
sua mutazione in partito borghese di governo. I gruppi dirigenti del PRC si subordinarono ciclicamente
alle soluzioni borghesi di governo e alla concertazione sindacale, sino a votare in cambio di ministri i
sacrifici e le missioni di guerra. Il risultato d’insieme fu uno solo: la sconfitta sociale del movimento
operaio, la vittoria ripetuta del berlusconismo.
Vent’anni dopo, la crisi della II Repubblica ripropone con attori diversi la stessa commedia. Tutti i
responsabili della sconfitta d'allora tornano, con passi diversi, sul luogo del delitto.
La maggioranza dirigente della CGIL tenta il recupero della concertazione col padronato proprio nel
momento della massima offensiva padronale contro i diritti contrattuali. Non è solo una pugnalata alla
FIOM e alla grande piazza del 16 ottobre. E’ il tentativo di inserirsi nella crisi politica del berlusconismo in
funzione del ricambio politico borghese. In un certo senso è l’offerta di una sponda sindacale alla
borghesia italiana per proporle di cambiare spalla al fucile. Il fatto che questa linea venga riconfermata
persino dopo il 14 dicembre, a fronte di un governo reazionario in provvisorio recupero, dopo
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Relazione introduttiva del portavoce MARCO FERRANDO
l'aggressione di Marchionne a Mirafiori, dopo l'allineamento di Marcegaglia a Marchionne, contro la
proposta dello sciopero generale da parte dello stesso movimento di massa degli studenti, dà la misura
di un corso strategico irriformabile che è e resta oggi come ieri il principale organizzatore delle sconfitte.
Con una differenza: oggi l'organizzazione della sconfitta è la merce di scambio non del ritorno alla
concertazione, ma della sola speranza- forse vana- di riconquistarla.
Parallelamente, sul piano politico, avanza l’operazione di ricostruzione di una nuova socialdemocrazia
italiana attorno alla figura di Nichi Vendola. Le sue gambe sono ancora esili ed esposte a mille variabili.
Ma lo spazio politico di Sinistra e Libertà è reale : usare la crisi del PD per ricomporre attorno a sé una
socialdemocrazia di governo, socialmente radicata nella CGIL e alleata affidabile dei partiti borghesi,
liberali e cattolici. Senonchè il vendolismo si spinge persino al di là di un orizzonte semplicemente
socialdemocratico. Non si accontenta, se non in termini di un eventuale subordinata, di una "sinistra del
centrosinistra", come puntava a fare Bertinotti. Punta davvero a guadagnare lo scettro dell'intera
coalizione borghese. E cioè a conquistare il premierato di governo, la guida politica di fatto del
capitalismo italiano. L'ossessiva richiesta delle primarie non è solo schermaglia tattica nelle
contraddizioni del PD. E' la ricerca dell'investitura popolare per l'aspirante candidato democratico del
fronte borghese, dentro l'accettazione delle regole populiste plebiscitarie della seconda repubblica,
nonostante la loro crisi. E per onorare questa aspirazione Nichi Vendola combina la difesa formale dei
metalmeccanici e la più sofisticata affabulazione retorica a beneficio dell'immaginario popolare, con gli
ammiccamenti più scoperti alle classi dirigenti del paese. Apre alla Chiesa perchè sa che un premier
rispettabile ha bisogno della benedizione dei vescovi. Moltiplica gli incontri con le associazioni
confindustriali (come nel nord Est), perchè sa che un candidato premier è credibile se ha il lasciapassare
o almeno la neutralità dei padroni. Giunge a condannare le contestazioni operaie radicali alla Cisl perchè
sa che un premier rispettabile deve rispettare e gestire la concertazione. E siamo solo al piede di
partenza della corsa al premierato. Possiamo immaginare un eventuale punto d'arrivo. Questo è dunque
il vendolismo: l'ennesimo spartito del trasformismo.Il Vendolismo è in fondo il sogno di un Bertinottismo
finalmente compiuto: i voti operai, i ministeri borghesi. Ma con buona pace di Nichi Vendola, non è la
nuova poesia della vittoria, ma la vecchia prosa della sconfitta. E noi che non abbiamo capitolato a
Bertinotti, non ci facciamo incantare dal suo erede.
Infine il terzo attore è la neonata Federazione della Sinistra, attorno al PRC e al PDCI. A differenza di
SEL, non si tratta di un progetto organico, ma, prevalentemente, di un disegno di autoconservazione. E
l'autoconservazione è affidata, ancora una volta alla ricomposizione col centrosinistra sul terreno del
governo. Non inganni la rassicurazione francamente imbarazzante circa il “rifiuto” della Federazione di
entrare nell’esecutivo. E' vero l'opposto: l'esclusione dal governo è la rassicurazione chiesta dal PD
come condizione per imbarcare la federazione. E la federazione si rassegna – se così si può dire – a
questa condizione pur di ritornare nel Centrosinistra; pur di partecipare alla maggioranza di sostegno del
suo eventuale governo confindustriale ; pur di ottenere in cambio del patto coi partiti della borghesia , la
riconquista dei seggi parlamentari. Siamo al tentato replay del 96-98, ma in peggio. Allora Rifondazione,
che pur votò le peggiori politiche padronali di Prodi dall'interno della sua maggioranza,( a partire dal
famigerato pacchetto Treu), non aveva un accordo stabile di governo col centrosinistra, con cui poi
ruppe. Oggi la Federazione, pur di ottenere il rientro istituzionale, garantisce al PD e se occorre persino
all'UDC un patto organico di legislatura. E questo nel momento stesso in cui PD e UDC spalleggiano la
Fiat contro i lavoratori, e le sinistre sostengono i lavoratori contro la Fiat. Siamo all'eterna riproposizione
di una politica scissa dai contenuti di classe. Il Congresso del PRC a Chianciano, rompendo con
Vendola, aveva promesso solennemente “In basso a sinistra”. Due anni dopo ribussano, in alto e a
destra, sulla scia di Vendola. Lungo la rotta sperimentata degli ultimi 15 anni.
Noi non sappiamo quali saranno le fortune di questi disegni delle sinistre politiche e sindacali, peraltro
subordinate a loro volta alle fortune altrettanto incerte dei partiti borghesi di centrosinistra cui si sono
affidate.
Sappiamo solo che quei disegni ripropongono la subordinazione suicida del movimento operaio alle
classi dirigenti, ai loro tentativi di ricomporre contro i lavoratori un nuovo equilibrio politico . Sappiamo
che il solo perseguimento di quei disegni è già oggi il principale fattore di crisi dell’opposizione di classe
e di massa cui infatti le sinistre non offrono alcuna prospettiva reale; sappiamo solo che l'impasse
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dell'opposizione di classe e di massa è, a sua volta, il principale fattore di tenuta politica della borghesia
e di incoraggiamento della sua offensiva.
LA NOSTRA PROPOSTA POLITICA. VIA BERLUSCONI. SE NE VADANO TUTTI. GOVERNINO I
LAVORATORI
Per tutte queste ragioni, la nostra proposta politica e linea d’azione è l’esatto capovolgimento della linea
generale delle sinistre italiane. Proprio partendo dall'interesse generale del movimento operaio.
Se le sinistre riformiste lavorano a subordinare l’opposizione sociale e i movimenti di massa alla
ricomposizione di un’equilibrio borghese, Il PCL rivendica la rottura coi partiti borghesi come condizione
per liberare un’opposizione radicale che punti all’esplosione sociale e a un’alternativa di società e di
potere.
Il nostro programma si basa su un bilancio di verità della storia italiana.
Le classi dirigenti hanno fallito, nella prima come nella seconda repubblica.
Tutte le loro promesse sociali si sono risolte nell'aumento dello sfruttamento, nella diffusione della
povertà, nella privazione di futuro della giovane generazione.
Tutti i mali storici nazionali si sono aggravati, a partire dalla precipitazione della questione meridionale,
da un'evasione fiscale delle classi proprietarie che sfiora ormai i 2oo miliardi annui, da una criminalità
organizzata sempre più incorporata al capitale finanziario e sempre più estesa nello stesso Nord.
Mentre la promessa "Repubblica degli onesti" annunciata 20 anni fa dai cultori del maggioritario, si è
risolta nell'ulteriore espansione della corruzione pubblica, nell'infinita giostra di comitati d'affari, lobbies,
cordate e consorterie che attraversano tutto il sottobosco delle organizzazioni dello Stato, incluso il
potere giudiziario, i più alti vertici della aziende pubbliche come Finmeccanica ed Eni, le vette
dell'intoccabile arma dei carabinieri, il giro vorticoso dei grandi appalti pubblici e delle loro cricche, gli
ambienti immancabili del Vaticano e dello IOR, vera lavanderia della finanza criminale.
Queste non sono deprecabili patologie, magari estirpabili con appelli morali, qualche sentenza
giudiziaria, qualche nuova combinazione parlamentare. Questa è l'essenza stessa del regime borghese
e della sua decantata "democrazia".
Un'alternativa è tale se spazza via questo mondo e la sua base sociale. E viceversa ogni soluzione della
crisi politica ed istituzionale interna a quel mondo sarebbe un inganno per i lavoratori e una sconfitta
delle loro ragioni.
Per questo abbiamo assunto e riproponiamo come parola d'ordine la cacciata del governo Berlusconi- in
ogni caso prioritaria - dal versante delle ragioni del lavoro e non di Montezemolo. Perchè la cacciata di
Berlusconi si trasformi nella cacciata delle classi dirigenti del Paese, dei loro partiti, delle loro istituzioni,
a favore di un governo dei lavoratori.
"Que se vayan todos", che se ne vadano tutti,recitava il 14 dicembre in piazza uno striscione
studentesco a Roma riprendendo la parola d'ordine della sollevazione argentina del 2001. Questa è la
nostra stessa parola d'ordine. Perchè solo una Repubblica dei lavoratori può fare davvero piazza pulita
di sfruttamento, oppressione, malaffare . Introdurre in ogni lotta parziale e in ogni movimento il senso di
questa prospettiva generale è la cifra della nostra politica quotidiana.
LA NOSTRA LINEA DI MASSA. UNITA' e RADICALITA'
E’ questa non solo l’unica linea e proposta capace di configurare una soluzione progressiva della crisi
sociale, a fronte della crisi storica del riformismo. E' anche l'unica linea e proposta capace di sbloccare l
'attuale impasse del movimento operaio sul terreno della lotta di classe, in un passaggio decisivo.
La situazione del fronte di massa in Italia attraversa grandi difficoltà. Negli anni cruciali della crisi e della
recessione, le lotte aziendali di resistenza, anche radicali, a difesa del lavoro, non hanno trovato un
punto di unificazione. Numerose sconfitte, in ordine sparso, a partire da Alitalia, hanno concorso a
peggiorare i rapporti di forza complessivi. Mentre i successi parziali di alcune lotte emblematiche, dalla
Inse all'Alcoa, non sono stati raccolti e investiti in una prospettiva generale di ripresa. Parallelamente si
registra una situazione estremamente negativa nel pubblico impiego: dove a fronte dell'attacco sociale
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più pesante del dopoguerra, non si è prodotta nessuna risposta complessiva di lotta ed anzi si sono
allargati, dopo il 2008, fenomeni ulteriori di passivizzazione, con ricadute negative sul livello complessivo
dell'opposizione sociale. Il fatto che le gestione del conflitto sociale da parte della Cgil e delle sinistre sia
la principale responsabile di questa situazione non cambia la sua natura.
E tuttavia la situazione sociale non è statica. Anche in Italia, come in altri paesi europei, abbiamo
assistito in questi ultimi mesi ad una ripresa, seppur ancora disomogenea, delle mobilitazioni. La
ribellione del NO a Pomigliano contro i diktat della Fiat. Il susseguirsi di sacrosante contestazioni operaie
radicali ai sindacati venduti di CISL e UIL. La grande manifestazione di massa promossa dalla FIOM a
Roma il 16 ottobre. La potente irruzione del movimento studentesco contro il decreto Gelmini dentro le
stesse contraddizioni della crisi politica, misurano nel loro insieme, un fatto nuovo. Che ancora non
trascina il movimento più generale delle masse , ma che indica un possibile principio di svolta cui
guardano, con crescente preoccupazione, i circoli dominanti della borghesia italiana e tutti i loro partiti.
Ma a questo principio di ripresa non corrisponde una direzione adeguata e una proposta reale. Certo la
FIOM, per le sue posizioni di contrasto e come bersaglio centrale dell’offensiva padronale, è diventata di
fatto, per molti aspetti, un punto importante di riferimento e di aggregazione nello scontro sociale, come
ha dimostrato l’enorme capacità di richiamo della manifestazione di ottobre presso l’insieme dei soggetti
sociali dell’opposizione. E oggi la difesa incondizionata della Fiom dall'attacco congiunto di padroni,
governo, PD, e persino dei vertici della Cgil, è il primo dovere di ogni militante di classe e il primo
impegno del nostro partito. Ma con altrettanta franchezza diciamo che la proposta di linea che la Fiom
avanza è nettamente al di sotto delle sue importanti responsabilità: oscillando tra un prezioso rifiuto della
capitolazione a Marchionne , e il rifiuto di un salto generale di radicalizzazione dello scontro. Questo
limbo non potrà reggere a lungo, di fronte al salto drammatico del livello stesso del conflitto. Senza una
svolta si rischia una disfatta.
Per questo a tutte le forze dell’opposizione sociale, a tutte le sinistre politiche, sindacali, sociali,
associative, di movimento il PCL avanza pubblicamente una proposta di svolta unitaria e radicale.
PER UN FRONTE UNICO DI CLASSE
In primo luogo avanziamo la proposta della più larga unità d'azione, in piena autonomia dal
centrosinistra e da tutte le forze borghesi. Al fronte unico di tutte le forze dominanti contro il lavoro- che
unisce nel sì a Marchionne i Berlusconi e i Fassino di tutta Italia- va contrapposto il più ampio fronte
unico del proletatiato e di tutte le sue organizzazioni. Non si regge l'onda d'urto dell'offensiva dominante
senza serrare le fila. E non si serrano le fila sul terreno della lotta senza liberarsi dell'abbraccio
paralizzante, diretto o indiretto del centrosinistra o dell'illusione di condizionarlo. Per questo rilanciamo la
proposta di un coordinamento nazionale permanente e autonomo di tutte le forze promotrici e aderenti
della grande manifestazione nazionale del 16 Ottobre, sulla scia dell'esperienza in corso di " Uniti contro
la crisi", e della manifestazione di massa del 14 Dicembre. Proponiamo che questo blocco si radichi e si
strutturi anche su scala locale, in ogni realtà territoriale. Proponiamo che questo fronte si estenda alle
forze di classe non ancora coinvolte: e per questo facciamo appello a tutte le organizzazioni del
sindacalismo di base perchè abbandonino una posizione insostenibile di estraneità e demarcazione
dalle manifestazioni di massa e dal fronte unico di lotta con la Fiom, come purtroppo è avvenuto il 16
Ottobre e il 14 Dicembre. Non ci si può defilare di fatto dal fronte unico contro la Fiat per i diritti di tutti.
Non si tratta di rimuovere le responsabilità della Fiom in ordine alla gestione delle lotte. Si tratta di
assumersi le proprie responsabilità di fronte ai lavoratori. Non si tratta di difendere il proprio spazio dalla
concorrenza reale o presunta di altre sigle, a scapito dell'unità di classe. Si tratta di sviluppare, dentro la
più larga unità di classe il più ampio e libero confronto di posizioni e proposte.
PER UNA SVOLTA RADICALE DELLE FORME DI LOTTA
In secondo luogo proponiamo all'insieme delle sinistre, e tra le masse, una svolta radicale sul terreno
dell'azione. Non si fronteggia la linea di sfondamento del padronato e del governo, senza contrapporle
una forza di massa uguale e contraria. Questo è oggi il nodo centrale della lotta di classe in Italia. Lo
diciamo da tempo: scioperi simbolici e ordinari, azioni centellinate e rituali , pure manifestazioni di
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